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NUMERO 18 - 30/09/2015

 Rappresentanza politica vs. rappresentanza degli interessi: brevi considerazioni sul sistema di lobbying nell'Unione europea

In un recente lavoro in materia di lobbying, si è ritenuto di citare una ormai risalente osservazione dottrinale (i.e. è difficile «tracciare una linea tra lobbying e amicizia») poiché ritenuta perfettamente sintomatica sia della natura “personalistica” del rapporto che lega il “lobbier” al “lobbied” – ovvero colui il quale esercita attività lobbistica a colui il quale ne è invece destinatario – sia della conseguente, ed ancora attuale, insufficienza delle tradizionali e tipiche categorie giuridiche a definire tale fenomeno. Nel medesimo lavoro, tuttavia, si è altresì sostenuto come l’interdipendenza fra dimensione sociologica e giuridica del lobbying sembrasse testimoniata dalla loro «confluenza entro l’unico e comune paradigma concettuale di “rappresentanza” (politica), intesa quale moderna espressione del pluralismo sociale: “una democrazia pluralista non solo ammette in linea di principio i conflitti che fondano e alimentano una società aperta, ma dispone di una varietà di istituzioni e circuiti decisionali utili a canalizzarli, a contemperarli reciprocamente, a trasformarne la natura o ad assorbirli nel tempo, senza scaricarne l’impatto su un solo punto del sistema”»; ciò, però, insieme alla consapevolezza della fondamentale divergenza “strutturale” fra lobbying e democrazia rappresentativa: quello democratico è infatti un «progetto» inclusivo, la cui «forma di rappresentanza fondativa […] politico-parlamentare» è mediata dai «partiti politici» laddove il lobbismo, invece, si basa su una «rappresentanza tendenzialmente da mandato» (i.e. client-based) orientata alla «difesa puntuale e circostanziata d’interessi settoriali». Ed invero – se anche si volesse estendere il concetto di “rappresentanza politica” al fenomeno del lobbying – dovrebbe intanto rilevarsi come il rapporto clientelare generalmente sotteso alla attività lobbistica presenti le caratteristiche di un “mandato” e sia assistito, quindi, dalle garanzie civilistiche tipicamente previste per tale tipo di contratto; nonché come il lobbista costituisca “canale di comunicazione” fra rappresentato (elettore) e rappresentante (eletto) «rivestendo così egli stesso – contestualmente – il ruolo di rappresentante (del cliente) e di rappresentato (dal funzionario)». Potrebbe dunque inferirsi come a latere della rappresentanza politico-partitica, che univocamente caratterizza le moderne democrazie occidentali, esista anche una “forma” di rappresentanza politica di matrice “non elettiva”: «il mandato elettivo e quello lobbistico condividerebbero un fondamentale denominatore comune, ovverosia la rappresentatività intesa come legittimazione (politica) asseverata dai rappresentati nella loro duplice – ed, appunto, concorrente – veste di elettori e clienti»; ed ugualmente, che dipendano dalla “qualità” degli interessi patrocinati – quantomeno interferenti con quelli, generali, della collettività – sia la riconducibilità della lobbying activity entro i «confini fisiologici» del sistema democratico, sia la misura del grado di rappresentatività delle lobby stesse. Ma proprio rispetto a tale ultimo profilo, invero, la nozione di (asserita) “rappresentatività” delle lobby pare prestarsi ad una lettura critica: infatti «il problema della rappresentanza politica non è […] scindibile dal problema della tutela dei diritti», appunto perché «i diritti si difendono attraverso il controllo del potere politico e della maggioranza che lo detiene» ed «al riconoscimento di determinati diritti corrisponde di necessità l’esistenza di un certo tipo di rappresentanza». È pertanto in relazione alla fondamentale esigenza di assicurare la “eguaglianza nel godimento dei diritti” – caratterizzante il moderno Stato di democrazia pluralista – che la natura tipicamente “settaria” degli interessi perseguiti dalle lobby può negativamente incidere, poiché è soltanto in ragione della adozione di provvedimenti giuridici materialmente funzionali alla cura dei predetti interessi che si basa – pare – il «rapporto psicologico» di «aggregazione politica» che lega i membri della collettività ai «capi» politici, nell’ambito della c.d. “rappresentatività non elettiva”. La declinazione della “rappresentanza” (politica) sub specie “lobbying” deve essere filtrata, allora, attraverso la natura – ovvero la “diffusione” – degli interessi patrocinati da ciascuna lobby; e sulla base di tale premessa, può intanto convenirsi con chi, in dottrina, ha recentemente definito le lobby come una «serie di gruppi sociali di diverso genere e portatori di interessi disparati […] che influiscono (o cercano comunque di influire) in vari modi sulle scelte dei pubblici poteri cui sono in maggior misura interessati». È dalla superiore definizione che può dedursi la distinzione fra un mero «gruppo di interesse» ed un «gruppo di pressione» stricto sensu, invero consistente – si sostiene – nella “attività politica” svolta (soltanto) dal secondo «per indurre le istituzioni di governo ad adottare – o non adottare – una determinata posizione», ovverosia nell’esercizio di «una influenza sulle decisioni politiche premendo sui pubblici poteri». Ed è sulla falsariga di tale distinzione che dev’essere interpretato, quindi, il processo di trasformazione ed articolazione della “democrazia” (sic et simpliciter) in “democrazia rappresentativa”, nell’ambito del quale «le associazioni autonome venivano considerate non solo legittime, ma realmente necessarie alla democrazia su larga scala» e che ha altresì generato «interessi e gruppi di interesse diversi a misura del grande Stato-nazione» frammentando, indi, il «bene pubblico in interessi individuali e di gruppo» nonché asseverando la «grossolana finzione» della rappresentanza politica quale «espediente tecnico-normativo [per] l’assunzione delle decisioni collettive in materie in cui non sarebbe possibile né auspicabile il ricorso diretto al corpo elettorale». In ordine alle premesse definizioni teoriche, sembrerebbe infine possibile ricondurre gli elementi ontologicamente caratterizzanti il lobbying a due ambiti principali: uno “formale” – ossia l’esercizio diretto di pressione a livello politico-istituzionale, seppur esternamente al circuito di rappresentanza elettiva – ed uno “sostanziale” – ossia il conferimento di informazioni tecnico-specialistiche, inerenti agli interessi patrocinati dal gruppo e funzionali alla determinazione di un conforme indirizzo politico – al fine di coagularli in una ulteriore, e conclusiva, definizione della lobby quale «faccia politica dei gruppi di interesse, una volta che decidano di perseguire finalità pubbliche, mutandosi da associazioni private in gruppi volti alla azione politica»... (segue)



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