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Il quadro generale della contabilità pubblica dei paesi europei è sottoposto da circa dieci anni a profondi aggiustamenti, determinati soprattutto da due fattori: il processo di integrazione comunitario e la crisi finanziaria. Se il primo perseguiva l’obiettivo di una progressiva convergenza, anche contabile, degli Stati membri, è indubbio che la necessità di fronteggiare una crisi capace di propagarsi in fretta ha imposto un’accelerazione delle riforme economiche e ordinamentali richieste ai partecipanti dell’Unione; il risanamento delle finanze e il raggiungimento degli equilibri di bilancio sono divenuti così le priorità da seguire, soprattutto per quei paesi che si trovavano più indietro nei fondamentali economici. In questo contesto, anche l’Italia, afflitta da problemi endemici e strutturali, ha varato le proprie riforme. Se l’accordo che aveva portato alla sigla del Fiscal compact prevedeva che il suo recepimento avvenisse entro un anno, appena un mese dopo la firma l’Italia si è adeguata con legge costituzionale. La legge interviene su tre livelli: detta principi costituzionali, prevede norme dello stesso rango ma di immediata applicazione, rinvia infine ad una legge la sua concreta attuazione. Essa riforma degli artt. 81, 97, 117 e 119 della Costituzione. Al centro della novella via è il principio dell’equilibrio di bilancio, che diventa la stella polare delle politiche della finanza pubblica, che riguarda non solo lo Stato nel suo complesso (art. 81), ma ogni pubblica amministrazione (art. 97), le Regioni e gli enti locali (art. 119). Per quanto attiene alle relazioni finanziarie tra Centro e periferia, la riforma interviene sulla ripartizione di competenze, operata dall’art. 117 Cost., riportando “l’armonizzazione dei bilanci pubblici” in quella esclusiva dello Stato, e mantenendo il solo “coordinamento della finanza pubblica e del sistema tributario” tra le materie a legislazione concorrente. Si profila così in modo evidente la possibilità/necessità per l’autorità centrale di controllare le politiche di bilancio periferiche, in primis quelle delle Autonomie regionali e delle Province autonome, con la conseguenza di correggere le misure considerate non in linea con gli obiettivi comunitari. In altre parole, la riforma persegue una politica economica anticongiunturale, assegnando allo Stato il potere «di comprimere fortemente la capacità di spesa degli enti territoriali, riassorbendo sul governo centrale le principali politiche di intervento pubblico»; la novella del 2012 dunque fornisce al governo un maggiore potere di controllo e di direzione della finanza pubblica. Proprio per questo le sue misure, adottate in via unilaterale, sono state subito contrastate dai soggetti destinatari dei nuovi vincoli... (segue)
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