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NUMERO 13 - 29/06/2016

 Verso un 'pilastro europeo dei diritti sociali'

E’ di tutta evidenza che a seguito del dilagare in Europa della crisi economico-finanziaria, nonché sotto la pressione di fenomeni di portata internazionale di difficile gestione, quali l’immigrazione di massa ed il terrorismo di matrice politico-religiosa, l’Unione europea è sottoposta oggi a forti tensioni sia endogene che esogene, che rischiano, se non risolte, di far implodere l’intero progetto (politico) europeo. D’altro canto, è altresì innegabile che il processo di “federazione” tra i Paesi europei è ormai assai avanzato, tanto più nell’eurozona, in virtù della cessione all’UE da parte degli Stati aderenti alla moneta unica della sovranità monetaria, cui però – come si sa - non si è ancora accompagnato il trasferimento in capo alle istituzioni europee di formali competenze di governo dell’economia. Questa singolare  - se non, come si è preferito definirla altrove, “schizofrenica”- dislocazione su differenti livelli di governo di politica monetaria, da un lato, e politica economica, dall’altro, comporta il rischio di veder definitivamente tramontare il modello sociale europeo, che, per quanto sufficientemente definito attraverso un nutrito catalogo di diritti individuali, di libertà collettive e di servizi pubblici previsti a vantaggio dei cittadini-consumatori dalla Carta dei diritti fondamentali, sconta tuttavia la carenza, sul piano europeo, dei necessari strumenti operativi, già per la circostanza che l’UE non eroga direttamente prestazioni sociali. Ancora più a monte, peraltro, vi è il pericolo di compromettere la tenuta stessa dello Stato sociale sul piano degli ordinamenti interni. Ciò a causa, da un lato, della debolezza degli strumenti di coordinamento delle politiche economiche nazionali che il Trattato di Lisbona ha rimesso all’UE e che con la recente crisi hanno disvelato in pieno una sostanziale inadeguatezza a contenere gli shocks asimmetrici tra le varie aree dell’eurozona; e, dall’altro, per effetto degli obblighi pesanti, in termini di contenimento della spesa pubblica e di mantenimento dell’equilibrio di bilancio, che ormai gravano sugli Stati aderenti ai vari sistemi di salvataggio finanziario via via escogitati persino al di fuori del diritto europeo primario, attraverso i cd. “Trattati a latere”, tra cui il MES ed il Fiscal Compact. Invero, l’impossibilità per gli Stati che adottano l’euro di ricorrere a manovre inflazionistiche per rilanciare la propria economia, dinanzi ad una gestione della politica monetaria ormai affidata ad una Banca Centrale europea, che, ancorata al criterio della stabilità dei prezzi, si mantiene indipendente dagli interessi economici nazionali, impone ai Paesi più poveri e meno produttivi di (tentare di) compensare i deficit commerciali con drastici interventi sul settore pubblico, che si risolvono in ampi tagli ai servizi sociali (a cominciare dalla sanità e dall’istruzione) e all’occupazione; nel contenimento dei salari e delle pensioni; persino nelle privatizzazioni dei beni pubblici, imposte da autorità tecniche sovranazionali (Commissione, BCE, FMI) per concedere quei sostegni finanziari, che poi vengono anche massicciamente utilizzati per ricapitalizzare le banche, anzitutto nazionali... (segue)



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