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La storia dell'integrazione europea è la storia delle sue promesse, esplicite o implicite. L'Europa è stata costruita sotto il credito concesso a certe aspettative legate all'integrazione. Il pubblico è venuto per accettare le modifiche istituzionali o le trasformazioni culturali che hanno coinvolto il processo di integrazione, perché esso veniva legato a una serie di benefici comuni, quali, in successione: la ricerca della pace e della sicurezza; la creazione di un mercato unico (con la creazione dell'euro, come la sua più grande innovazione); il consolidamento delle democrazie in Europa, soprattutto nel sud e ad est (ciò che ha rappresentato la principale giustificazione per l'estensione); o il tentativo dell’Europa di affermarsi come potenza globale contro gli Stati Uniti o le potenze emergenti. Senza soffermarsi adesso a valutare in che misura sono stati raggiunti questi obiettivi, quello che mi preme affermare è che queste promesse sono ormai esaurite e il successo di molte di esse è ciò che le rende inutili come elementi di legittimazione. Cosa ci resta, quindi, che può funzionare come elemento di mobilitazione della volontà dei cittadini? Resta solo la promessa sociale, sempre presente nel progetto di integrazione, non sufficientemente compiuta e attualmente lontana dal fornire all’Europa la necessaria legittimità delle sue istituzioni e quella necessaria accettazione, senza la quale l’UE non potrà affrontare le sfide con cui sarà chiamata a confrontarsi in futuro. Gli ultimi anni siamo stati preoccupati di più per il deficit democratico. Non che le sfide democratiche non siano importanti, ma la costruzione sociale dell'Europa è in questi momenti cruciale per garantire l'accettazione popolare. Il problema è, niente di più e niente di meno, determinare in quale misura e in quali condizioni l'UE può essere configurata come una alternativa post-nazionale dello Stato sociale. L'unica fonte di legittimità che è funzionale per l'Europa è il recupero dell'equilibrio tra la politica, il sociale e l’economia, in un momento in cui abbiamo una economia galoppante e una politica impotente. Attraverso l’integrazione siamo riusciti a rendere l’idea della guerra in Europa non plausibile, ma non siamo stati in grado di equilibrare le dinamiche economiche, che si sono scatenate con la liberalizzazione dei mercati. In ciò consisterebbe conciliare razionalità economica e razionalità politica, invece di chiedersi solo come la politica può regolare la realtà economica. E ciò accade per ottenere che la prosperità economica vada di pari passo con l'inclusione sociale. L'Europa ha bisogno di una dimensione sociale e di protezione, se vuole riscuotere l'appoggio di ampie fasce della popolazione. Il compito è semplicemente quello di ottenere una versione post-nazionale dello Stato sociale, il che non significa la sostituzione a livello europeo delle funzioni dello Stato nazionale, nè un semplice coordinamento tra i sistemi di protezione e ridistribuzione. Occorrerà realizzare una grande innovazione sociale, perché non sappiamo come eseguire tali funzioni in un nuovo contesto. Le posizioni pessimistiche attirano l'attenzione sulla mancanza di "identità redistributiva" e non è facile individuare dove siano le necessarie risorse normative per ottenere lo slancio redistributivo, tenendo conto dell'eterogeneità socioculturale dell'UE. Neanche aiutano troppo gli ottimisti chi instancabilmente ripetono che i problemi e le crisi creano le condizioni strutturali e funzionali necessarie per superarli, in una sorta di effetto di Munchausen che permetterebbe l'auto-creazione istituzionale delle risorse normative appropriate... (segue)
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