È sempre più necessario vagliare la validità concettuale di un’opzione significativa, qual è quella dell’Europa intesa come spazio sociale, evidenziata da un’ampia letteratura anche di orientamento culturale e scientifico eterogeneo. Si tratterebbe infatti di comprendere come l’Unione Europea potrebbe e dovrebbe porsi quale istituzione in grado di rigenerare i meccanismi di protezione dello Stato sociale, promuovendo la partecipazione democratica e il lealismo civico attraverso forme inedite di solidarietà sociale. Si tratterebbe cioè di affrontare la sfida di un’Europa sociale postnazionale. L’ideale dell’Europa sociale, nel quadro postnazionale, si fonda su un presupposto “negativo”, radicato nella storia stessa del processo di integrazione europea. Si tratta cioè di sottolineare come il perseguimento dell’obiettivo del mercato unico sia stato proprio uno dei fattori di crisi delle politiche sociali statali. Questo nesso tra integrazione economica europea e crisi dello Stato sociale si è reso evidente con l’istituzione dei noti parametri di stabilità, i cosiddetti criteri di convergenza economica, previsti dal Trattato di Maastricht. In poche parole, mantenere il rapporto fra deficit e prodotto interno lordo in linea con i parametri stabiliti ha comunque comportato un radicale ridimensionamento della spesa pubblica, in gran parte destinata a finanziare le politiche sociali. Il modello di un’Europa sociale, sulla base della più volte annunciata fase politico-costituzionale dell’integrazione europea, culminata con il testo di una Costituzione per l’Europa, si porrebbe quindi come reazione politica alla deregolamentazione prodotta dalla realizzazione del mercato unico. Del resto, passando dal presupposto ai caratteri di fondo del modello vero e proprio, non si tratterebbe di una semplice traduzione sovranazionale di un’idea di Stato sociale che sconta anche una crisi di tipo endogeno. Bisognerebbe anzi evitare la riproduzione di meccanismi protettivi chiaramente inidonei a fronteggiare una mutata realtà sociale. Come sostiene Anthony Giddens, giustamente scettico sulla fedele riproposizione su vasta scala della tradizionale struttura dello Stato sociale, occorre pensare a un modello che sostituisca alla fiducia passiva (di derivazione paternalistica) una fiducia attiva frutto di negoziazione permanente: «È l’idea stessa di welfare che dev’essere trasformata, e con essa anche alcuni dei nostri preconcetti sullo Stato sociale. Il welfare non consiste soltanto nell’evitare il rischio. Il welfare ha sempre più a che fare con un cambiamento positivo dello stile di vita. Se si vuole trattare in modo adeguato il problema è necessario introdurre il concetto di welfare positivo». Si tratta allora di pensare a questa idea di modello sociale europeo quale espressione di una sfera d’azione condivisa che non corrisponda a uno Stato sociale in senso classico, quanto piuttosto a un quadro istituzionale di solidarietà extranazionali affidate alla politica comune dell’Unione. Un modello sociale europeo istituzionalizzato dovrebbe comportare allora una devoluzione effettiva all’Unione Europea delle competenze giuridiche, politiche ed economiche in materia dei diritti sociali, in funzione di una politica comune, e per rendere così la politica sociale a livello europeo autonoma dai bilanci nazionali... (segue)
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