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NUMERO 17 - 07/09/2016

 Consigli regionali e rappresentanza politica

Concepito come tertium genus tra Stato federale e Stato unitario, frutto di una elaborazione teorica tutto sommato limitata e privo di precedenti storici capaci di assurgere a modello, lo Stato regionale italiano è il risultato di un esperimento politico condotto nel laboratorio della Costituente, arena di confronto tra sostenitori di un  timido «regionalismo amministrativo» e fautori di un più spinto «regionalismo politico»: mentre i primi concepivano le regioni come enti autarchici di natura amministrativa, dotati, al più, di una limitata funzione legislativa di attuazione della legge statale, i secondi attribuivano a tali enti territoriali una elevata politicità (id est: la capacità di curare gli interessi generali della comunità territoriale) e, con essa, una potestà legislativa “primaria” o - nelle formulazioni più estreme - residuale in tutte le materie non riservate espressamente allo Stato. Prevalse, tra queste due opposte visioni, una soluzione mediana ispirata allo schema predisposto dall’on. Ambrosini all’esito dei lavori del “Comitato dei dieci”, approvato anche grazie al progressivo cambio di atteggiamento da parte dei social-comunisti: in origine radicalmente contrarie all’istituzione di corpi intermedi – percepiti alla stregua di ostacoli all’azione di riforma politico-economica - le sinistre si mostrarono più favorevoli alle ragioni dell’autonomia dopo la fuoriuscita dal Governo di unità nazionale, sposando un orientamento che emergerà chiaramente dopo le elezioni del 18 aprile del 1948 e giustificato dalla necessità di recuperare in periferia lo spazio di manovra perso al centro... (segue) 



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