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FOCUS - Numero speciale 26/2016

 La governance europea della finanza pubblica nella grande crisi finanziaria

Gli effetti della Grande Crisi Finanziaria (GCF) sono palpabili. Il PIL com’è noto, non dice tutto ma è sicuramente un indicatore sintetico molto espressivo. La tabella e il grafico parlano chiaro. L’Italia ha lasciato sul campo quasi 10 punti di crescita che, tradotti in euro, ammontano a circa 160 miliardi, in soli 7 anni. La GCF non ha precedenti nella nostra esperienza diretta. Per intensità, profondità durata bisogna risalire nel tempo fino al 1929, alla grande depressione. Possiamo oggi fare un primo bilancio. La durata, dal 2008 al 2014. Il 2015 è il primo anno della ripresa. Fragile, esposta a mille rischi, ma ormai certa e diffusa, come mostrano i principali indicatori economici. La causa, un’eccessiva finanziarizzazione dell’economia (e non politiche di bilancio inadeguate, se si eccettua la Grecia), rispetto a cui molto, moltissimo, resta da fare, per porre riparo. La soluzione, una politica economica che è stata la rivincita di John Maynard Keynes (che non per caso pubblicò la Teoria Generale nel 1936, cinque anni dopo l’inizio della grande depressione). L’amministrazione Obama ha tirato fuori gli USA, da cui la crisi era partita, con una politica monetaria accomodante (massiccia immissione di liquidità e azzeramento dei tassi d’interesse) e un poderoso intervento pubblico (nella manifattura e nei settori innovativi). E questo cerca di fare ora, con difficoltà, anche l’Europa; un duro colpo per il mainstream liberista, dopo oltre un ventennio di incontrastato dominio, che ha pervaso anche i libri di testo dei corsi di economia. Il costo per le finanze pubbliche europee che, come mostra la tabella sul debito, ammonta a circa 25 punti di debito pubblico, utilizzati in grande parte per salvare i sistemi bancari ed evitare l’errore che si commise invece del 1929, scatenando il panico dei risparmiatori. Come vedremo l’Europa ha risposto alla GCF con l’irrigidimento della governance finanziaria. La tabella sul debito ci indica con evidenza una strada diversa, senza bisogno di complessi ragionamenti. Tra i due vincoli pilastro della governance finanziaria, quello sul debito è sicuramente il più stupido. Il 60 per cento del PIL era la media, Italia a parte, dello stock di passività accumulato dai principali paesi che si apprestavano, alla fine degli anni novanta, ad adottare la moneta unica. Nulla vieterebbe oggi di ridefinire il limite ad una valore più congruente con il nuovo livello di stock. Purtroppo la visione ordoliberale, che guida le decisioni soprattutto tedesche, rende questo molto difficile. La governance europea della finanza pubblica ha avuto una rilevante evoluzione nel corso degli anni novanta. Mentre avveniva il più grande sconvolgimento dell’Europa dopo la seconda guerra mondiale, crollavano i muri e si unificava la Germania, i dodici paesi che allora componevano l’Unione Europea, firmavano, il 17 febbraio 1992, il trattato di Maastricht. Partiva il complesso di costruzione della moneta senza stato, che si è snodato nel corso dell’intero decennio, con la realizzazione e modificazione degli istituti e dei meccanismi che disciplinano la finanza dell’Unione. Se non si considerano, seppur sommariamente, i principali tratti evoluti di questo processo, il quadro attuale, a valle si può, forse finalmente dire, della grande crisi finanziaria, potrebbe apparire incomprensibile, confuso in un “processo di crescente sofisticazione delle regole, di fronte al quale, potrebbe nascere “il sospetto che la complessità giovi a qualcuno, che si attribuisce così il monopolio” della loro comprensione e interpretazione. Siamo, in altre parole, al ruolo dei “sacerdoti”, richiamati da Andreatta in tempi risalenti, depositari delle conoscenze e dispensatori delle giuste ricette (Senato, servizio del bilancio, Seminario del 14 dicembre 1989 sulla riclassificazione del bilancio dello Stato, 1990)... (segue)



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