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NUMERO 2 - 25/01/2017

 Il giudizio sulla legge elettorale come decisione politica

Che la sentenza della Corte costituzionale n. 1 del 2014 – ovvero, più esattamente, l’ammissione della domanda che a essa conduceva – avrebbe prodotto deformazioni considerevoli nel sistema dei rapporti tra decisore politico e giudice delle leggi era previsione facile e di perfetto buon senso. Ma, come ormai accade ricorrentemente innanzi a decisioni della Corte ispirate a ragioni di «giustizia sostanziale», che si assume debbano fare premio sulle geometrie dei giuristi, molti annotatori – forse la maggioranza – hanno preferito giustificare valorizzando quelle ragioni, piuttosto che fare esercizio critico. E se critica v’è stata, essa ha assunto lo stesso segno sostanzialistico dell’orientamento criticato. Il che non sorprende. Qualcosa di analogo era già avvenuto – sempre in materia elettorale – con riferimento agli esiti manipolativi del referendum abrogativo, questione diversamente declinata dalla Corte in diverse fasi della parabola repubblicana e dunque diversamente valutata anche in ragione del suo segno latamente politico. Talvolta le critiche, anche quando provengono da giuristi «per professione», rinviano a orizzonti ideologici piuttosto nitidi, e capaci di attrarre in via tendenzialmente esclusiva ogni visione. E qualcosa di analogo presto ancora avverrà in materia di politiche economiche e del lavoro (previsione anch’essa facile, alla luce dei prodromi). Sta di fatto che le cinque ordinanze di rimessione alla Corte di questioni di legittimità relative alla legge 6 maggio 2015, n. 52 (cosiddetto Italicum: se esiste un dio vindice del lessico, perdoni gli autori) rivelano la irriducibile sostanza dei problemi aperti con quella prima decisione della Corte in materia di accesso sulle leggi elettorali per il Parlamento. La questione allora irrisolta – cioè proposta ed elusa, elusione consumata sotto le spoglie dell’ammissione dell’eccezione di costituzionalità nei casi di giudizio di accertamento o di «accertamento costitutivo» – fu quella dell’incidentalità come tratto distintivo del controllo giurisdizionale sulla legittimità della legge in Italia. La limpidissima circostanza che per la violazione dei diritti consumata nella fase di applicazione della legge elettorale per il Parlamento non sia stabilita alcuna istanza giurisdizionale comune, in ragione della riserva all’autodichia delle Camere, aveva sempre fatto ritenere precluso l’accesso alla Corte costituzionale. Ma nel 2014 le cose cambiano. Sotto l’impulso dei fattori di disfunzionalità introdotti nelle formule elettorali per Camera e Senato dalla legge n. 270 del 2005, e per il generale discredito cui tale legge era fatta segno (anche a causa delle dichiarazioni di chi l’aveva proposta e sostenuta, che ne confessava il movente a disilludere le aspettative della parte politica avversa e a rendere difficile l’operato della maggioranza sortita dalla sua applicazione), la Corte si orienta per l’ammissibilità e decide per l’illegittimità parziale, manipolando le formule elettorali, sul presupposto della intollerabilità di una «zona franca» dal suo giudizio... (segue)



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