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NUMERO 4 - 22/02/2017

 Turchia, che fare?

Con un ennesimo decreto di emergenza, pubblicato il 7 febbraio 2017, che coinvolge nel complesso 4464 dipendenti pubblici, altri 330 academici sono stati licenziati dalle università turche. È stato eliminato anche il loro diritto alla pensione e sono stati ritirati loro i passaporti. Con quest’ultimo provvedimento, il numero degli accademici licenziati in tronco con decreti del governo dopo il fallito colpo di Stato del luglio 2016 è arrivato, secondo alcune fonti a 4811 docenti, secondo altre addirittura a 7316. Si tratta, comunque, di un numero ben superiore (di venti volte, anche a stare al dato minimo) a quello dei docenti universitari licenziati dopo i colpi di Stato del 1960, 1971 e 1980. Quel che è evidente è che, con il pretesto di combattere i seguaci di Fetullah Gülen, accusato di essere all’origine del tentativo di colpo di Stato, in realtà il governo di Erdoğan si sta sbarazzando di tutti i suoi oppositori, tra i giudici, nelle università, nei ministeri, nell’esercito, nella stampa e negli altri mezzi di comunicazione. L’accanimento contro i docenti universitari è particolarmente forte ed è paragonabile solo a quello nei confronti dei giornalisti. Non si tratta certo di una novità: che la libertà di espressione sia in grave pericolo in Turchia è risaputo da tempo, come mostrano i rapporti di molteplici organizzazioni internazionali e le innumerevoli condanne da parte della Corte europea dei diritti dell’uomo, ma si è deteriorata specialmente negli anni più recenti, nei quali i governi dell’AKP (al potere dal 2002) sono andati assumendo tratti sempre più autoritari. Anche la libertà di insegnamento incontra da decenni difficoltà in Turchia e le università sono state oggetto di ripetute “purghe” a seguito dei colpi di Stato militari.  In particolare, nel 1981 fu posto fine a ogni, pur debole, autonomia universitaria attraverso la creazione di un Consiglio universitario nazionale (YOK) con il compito specifico di controllare le università. Inizialmente, appena giunto al potere, Erdoğan aveva promesso di democratizzare le università, ma in breve ha preferito assumere il controllo del Consiglio e delle università stesse, attraverso una politica finalizzata alla creazione di accademici fedeli al regime. A tale scopo, da un lato sono state istituite numerose nuove università (ben 92 in 10 anni), dall’altro le voci dissenzienti sono state sottoposte a inchieste e provvedimenti disciplinari. A tutto ciò si aggiunga il tentativo dell’AKP di esercitare un controllo sulle linee di ricerca e sulle opinioni espresse dagli studiosi attraverso strumenti più subdoli, come l’uso strumentale dei fondi di ricerca, delle progressioni di carriera, la sorveglianza dei temi di ricerca e dei curricola. E’ facile comprendere perché tra i dipartimenti più colpiti dal provvedimento del 7 febbraio ci siano le Facoltà di Scienze politiche e di Scienze delle comunicazioni dell’Università di Ankara, voci tra le più critiche e attente nella storia della Turchia contemporanea. Si pensi che a seguito dei licenziamenti, si trovano nella impossibilità di essere portati avanti 38 corsi di laurea, 5 corsi di laurea magistrale e 50 tesi nella Facoltà di scienze politiche, 40 corsi di laurea, 29 corsi di laurea magistrale e 99 tesi, in quella di Scienze delle comunicazioni. Il nuovo provvedimento ha provocato un movimento di protesta in tutta la Turchia, anch’esso duramente represso. e le testimonianze dei docenti licenziati, molti dei quali eminenti studiosi, ne rendono evidente il carattere politico. Si riportano qui di seguito alcune testimonianze rese ai giornali turchi... (segue)



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