Il caso “Brexit” inerente al recesso del Regno Unito dall’Unione europea – ormai noto e ampiamente esaminato dalla dottrina costituzionalistica e giuscomparatistica – ha rappresentato una vicenda dirompente nel sistema costituzionale anglosassone, sia per le conseguenze politiche, sia per gli effetti giuridici che ha prodotto tanto nell’ordinamento interno, quanto sul piano sovranazionale. Più in particolare, la rapida successione di accadimenti di grande valore politico – come la scelta di indire una consultazione popolare, l’esito positivo del referendum e la prospettiva dell’avvio della procedura di recesso dall’UE ex art. 50 TUE – da un lato, ha stimolato una nuova riflessione su alcune categorie tradizionali del diritto pubblico, per valutarne la permanente validità alla luce della loro applicazione nei moderni sistemi politico-costituzionali e, dall’altro, ha condotto ad un ripensamento delle strutture sovranazionali, considerato che il recesso del Regno Unito dall’UE determinerà necessariamente una rimodulazione dell’assetto ordinamentale europeo. Come noto, il referendum sulla “Brexit” del 23 giugno 2016 ha coinvolto il popolo britannico nell’assunzione della scelta di recedere dall’UE ed ha riportato un successo, seppure non eclatante, che ha immediatamente intensificato il dibattito originatosi sin dal momento in cui il candidato leader dei conservatori Cameron aveva annunciato la consultazione popolare nel corso della sua campagna politica per le elezioni parlamentari del 7 maggio 2015. In sostanza, l’indizione del referendum sul recesso dall’UE – che si sarebbe tenuto successivamente alla negoziazione di nuove condizioni per supportare la permanenza nell’ordinamento europeo – era un punto centrale del manifesto politico presentato dal partito conservatore in occasione delle ultime elezioni al Parlamento di Westminster. Pertanto, conquistata la maggioranza assoluta dei seggi della House of Commons, il nuovo Premier conservatore è rimasto politicamente impegnato dalla promessa di interpellare il popolo. Proprio in vista del referendum che avrebbe conferito ai cittadini britannici la facoltà di esprimere la propria opinione circa la permanenza nell’UE, il Parlamento di Westminster ha adottato nel 2015 l’«EU Referendum Act» (EURA 2015) diretto a disciplinare le procedure di esecuzione della consultazione popolare. La legge, invero, non si era soffermata sul valore ontologico del referendum e sulle conseguenze giuridico-costituzionali, oltre che procedurali, che si sarebbero inverate nel caso in cui il popolo britannico avesse manifestato la volontà di non aderire più all’UE, limitandosi a sottolineare la portata consultiva della consultazione popolare. Inoltre, nulla era specificato circa il ruolo che il Parlamento britannico avrebbe dovuto o potuto svolgere nell’evenienza – poi verificatasi – di successo del leave, che avrebbe rivelato la volontà del popolo britannico di non aderire più all’ordinamento europeo. A causa dell’incertezza (generatasi per lo più nell’opinione pubblica) sul valore costituzionale del referendum popolare e dell’indeterminatezza dell’EURA 2015 che non ne aveva identificato la portata all’interno del complessivo procedimento decisionale, il Governo ha riconosciuto all’esito referendario un significato politico decisivo nell’attivazione della procedura ex art. 50 TUE che legittima gli Stati a recedere dall’UE «conformemente alle proprie norme costituzionali» e si è intestato in via esclusiva il potere di avviare il recesso del Regno Unito dall’UE, a prescindere da una esplicita autorizzazione del Parlamento. In aggiunta al problema della vincolatività politica del referendum, pertanto, si è immediatamente prospettata la questione – di esclusivo rilievo costituzionalistico – dell’effettiva legittimazione del Governo a decidere di avviare – sia pure sulla spinta dell’esito referendario – la procedura di recesso dall’UE ex art. 50 TUE, in virtù delle c.d. prerogative della Corona (Royal Prerogative Powers) il cui esercizio è tradizionalmente delegato all’Esecutivo, che quindi è legittimato ad agire in modo autonomo sul piano internazionale (oltre che in altri ambiti, di cui si dirà in seguito). La scelta sulla permanenza nell’UE si è quindi tradotta in una questione di diritto costituzionale interno, volta ad accertare se il Governo avesse l’esclusiva potestà di procedere al recesso dall’UE, in virtù delle prerogative regie e dell’avallo politico fornito dall’esito referendario, oppure se fosse in ogni caso necessaria una deliberazione del Parlamento. In sostanza, a causa della sovrapposizione indebita tra rilievo politico e valore giuridico del risultato referendario, si è concretizzato un conflitto tra Parlamento e Governo circa il ruolo da rivestire nel processo decisionale inerente al recesso dall’UE, ma si è anche prospettato il rischio (sia pure teorico ed eventuale) di una discrasia tra la volontà popolare manifestatasi attraverso il referendum e la sovranità parlamentare che nell’ordinamento britannico è una dogma assoluto e che garantisce alle Camere l’assoluta libertà di assumere le proprie determinazioni senza alcun condizionamento esterno. Contro la decisione del Primo Ministro di attivare la procedura di recesso dall’UE due cittadini britannici hanno tempestivamente presentato ricorso dinanzi all’High Court of England and Wales (Divisional Court), coinvolgendo in tal modo il potere giudiziario nella risoluzione di una questione che aveva ormai assunto il carattere di un conflitto tra poteri dello Stato. Richiamando la superiorità della sovranità parlamentare, l’High Court con pronuncia del 3 novembre 2016 ha ribadito come sia necessaria un’esplicita deliberazione del Parlamento che, senza voler tradire la volontà espressa dal popolo con il referendum, deriva in modo diretto dal ruolo costituzionale delle Camere britanniche nella definizione del domestic law. Considerate le significative ripercussioni che il recesso dall’UE produce sul diritto nazionale britannico e sul sistema delle fonti interne, il Parlamento è chiamato a pronunciarsi con una deliberazione espressa, trattandosi di una competenza che non coinvolge le relazioni internazionali o la politica estera il cui esercizio rientra nelle prerogative regie, ma che invece inerisce al diritto interno che – coerentemente con i capisaldi del sistema costituzionale anglosassone – nessun intervento governativo può modificare... (segue)
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