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NUMERO 7 - 05/04/2017

 Il terzo intruso: problemi del fenomeno migratorio in Europa

Nel 1996 la pubblicazione del libro di Jürgen Habermas L’inclusione dell’altro si collocava in un frangente storico in cui le dinamiche migratorie (di quegli anni) non avevano raggiunto in Europa le dimensioni attuali e, pertanto seppur complesse, non passarono alla storia del secolo scorso come uno dei suoi più gravi mali. Il rapporto con l’altro, nella persona dello straniero, poneva per lo meno la questione dell’individuazione di strategie (non sempre efficaci) di inclusione attraverso il riconoscimento dei suoi diritti fondamentali. I numeri e le proporzioni dei flussi migratori del nuovo millennio hanno profondamente complicato il quadro della mobilità in Europa, ove la prevalenza dell’esigenza di sicurezza ha trasformato la questione dell’inclusione nell’esclusione dell’altro considerato un intruso, con l’effetto del progressivo illanguidirsi dei suoi diritti. L’Europa, come cuore pulsante dell’Occidente giuridicamente evoluto, si mostra impreparata all’esame di maturità in tema di solidarietà e le frontiere (storicamente simbolo di limiti, ma potenzialmente anche di nuovi inizi) si irrigidiscono nel collasso del legame umano, rispetto al quale prende il sopravvento la «presenza cattiva del filo spinato». Quelle che potremmo chiamare moderne forme di nomadismo «non per scelta, ma per il verdetto di un destino inclemente – ci ricordano in modo irritante, esasperante e raccapricciante quanto (irrimediabilmente?) vulnerabili siano la nostra posizione nella società e la cronica fragilità del nostro benessere conquistato a caro prezzo» e reso notoriamente oggetto di sciovinismo rispetto al terzo escluso. L’alterità è, dunque, vista come un fattore allarmante, non stimolo alla conoscenza reciproca e alla crescita. L’intruso, come tale, è un soggetto sgradito, un “problema in persona” (piuttosto che una persona con dei problemi), la cui soggettività è degradata al valore delle “vite di scarto”, di cui non ci si può fare carico per ragioni di economicità, di spazio e non solo. Sbiadisce così la gravità della condizione esistenziale dello straniero, sicché per provare il suo «bisogno d’aiuto può bastare il fatto stesso della fuga». Nell’ordinamento internazionale la disciplina della condizione giuridica dello straniero è improntata al principio dell’obbligo di protezione in virtù del quale lo Stato deve apprestare misure volte ad evitare che ne venga lesa l’integrità fisica, morale e patrimoniale. Tuttavia, non si può ignorare quanto ciò sia vistosamente violato e la dimensione prescrittiva sia assunta come vaporosa opzione ottativa, come desiderabilità di un dover essere reso volutamente inefficace. Nei casi più gravi di discriminazione e violazione dei diritti umani «si interdice quello che si prescrive e si prescrive quello che si interdice» . Tra la proclamazione dei diritti e la loro effettività corre lo scaricabarile delle responsabilità e si assiste ad una restrizione della sfera delle obbligazioni morali «al di dà delle carnevalesche ed effimere esplosioni di solidarietà e cura innescate dalle spettacolari immagini mediatiche delle tragedie che si susseguono nella infinita saga dei migranti» di cui ci limitiamo ad essere spettatori come di un reality sulle crudeli forme dell’esistenza umana nel XXI secolo. In queste pagine si cercherà di esaminare la tematica delle migrazioni in Europa alla luce del dato normativo internazionale e della disciplina europea, rilevandone limiti e profili di criticità. Si procederà anche ad un’analisi a livello nazionale delle condizioni normative per l’integrazione del migrante nel tessuto sociale, volte ad evitare l’emarginazione, non sempre efficacemente tradotte in reali forme di tutela... (segue) 



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