La disciplina giuridica dell’uso della lingua concorre in modo importante al processo di costruzione e di evoluzione dell’ordinamento giuridico statale. In particolare, prescrivere delle regole sull’uso della lingua nei rapporti di lavoro e nei rapporti con la pubblica amministrazione significa incidere sull’autonomia privata e sul tipo di relazione fra singolo e pubblici poteri, ossia contribuire a definire i caratteri della forma di Stato, le dimensioni dei principi di struttura dell’ordinamento giuridico statale ed, in particolare, sulle forme di attuazione del principio personalista, del principio di uguaglianza e del principio pluralista e democratico. La definizione dello statuto giuridico della lingua implica degli effetti sulla formazione, stabilizzazione ed evoluzione di comunità umane che, negli studi di filosofia della politica più recenti, vengono definite societal cultures e che, per i giuristi, ricadono nel genus concettuale dell’istituzione. Una definizione di riferimento per cogliere il fenomeno di cui si tratta può essere la seguente: una societal culture è una “cultura territorialmente concentrata, basata su una lingua comune che è utilizzata in un ampio spettro di istituzioni sociali, sia nella vita pubblica che privata (scuola, media, diritto, economia, amministrazione etc.)”. L’analisi della disciplina giuridica dell’uso della lingua contribuisce a definire, quindi, com’è organizzato in una data esperienza costituzionale il rapporto fra Stato-ordinamento e Stato-comunità. Due sono i possibili modelli alternativi: un primo modello s’informa al principio d’indifferenza nei confronti dell’identità etno-culturale dei cittadini e dell’abilità dei gruppi etno-culturali di riprodursi nel corso del tempo; il modello alternativo, invece, sulla promozione e “costruzione” di nuovi gruppi etno-culturali. In quest’ultimo caso, nello Stato-ordinamento si realizzano politiche di riconoscimento che attaccano gerarchie di status per promuovere e costruire nuove societal cultures, come, ad esempio, nel caso di ordinamenti a base multi-culturale che mirano a realizzare group-differentiated citizenship. Nell’ipotesi di ordinamenti organizzati sul principio di indifferenza o neutralità dei pubblici poteri rispetto agli orientamenti etno-culturali dei cittadini, invece, è stato dimostrato che gli effetti sulla struttura sociale possono essere i più vari: il principio d’indifferenza, infatti, non ha l’effetto di eliminare o impedire politiche di promozione di particolari culture, lingue, religioni. Questo perché è possibile che un processo di nation-building sia basato sulla tutela di più societal cultures, ossia su un peculiare modello di multiculturalismo. Ciò dimostra che il rapporto fra lo Stato e le istituzioni di cui si tratta è fortemente condizionato dalla fattori extragiuridici ed, in particolare, dal processo storico che ha portato alla formazione di quel particolare ordinamento giuridico statale. Giuristi e filosofi politici che si sono occupati dei rapporti fra comunità umane con caratteri peculiari che compongono uno specifico ordinamento giuridico statale, osservano, inoltre, che, sia sul piano sincronico che diacronico, si registra l’uso di politiche ed istituti giuridici radicalmente differenti nella disciplina dei rapporti fra Stato e gruppi che si differenziano per l’uso di una particolare lingua. Qual è la ragione di tale varietà di orientamenti? Innanzitutto, la disciplina giuridica dell’uso della lingua è stata strumento di regolazione dei rapporti fra Stato e minoranze nazionali, comunità umane radicate in una porzione del territorio statale già prima della formazione del nuovo Stato e che usano una lingua differente da quella della maggioranza dei cittadini dello Stato. In tali casi, la posizione di tali gruppi minoritari all’interno di Stati di nuova formazione è normalmente negoziata e regolata a partire dal momento di formazione dello Stato stesso in ragione della presenza sul territorio statale tali comunità. Nell’esperienza europea, in particolare, fra Ottocento e primo Novecento, la storia della formazione degli stati nazionali e degli spostamenti dei confini di tali Stati in conseguenza di guerre e negoziati di pace, mostra come l’uso della lingua sia stato parte di accordi bilaterali fra Stati che riguardavano cessioni di territori e spostamenti di confini, causando degli effetti sulla condizione della popolazione stanziata su quei territori e dando vita così alla formazione di minoranze nazionali. Laddove tali accordi sono mancati, come nell’esperienza italiana, l’effetto è stato quello di precludere o rendere più difficoltoso, per lungo tempo, il riconoscimento di diritti linguistici a tali minoranze presenti sul territorio dello Stato al momento della sua formazione. Da questa esperienza storica viene fuori una definizione di minoranza nazionale che si caratterizza per tre ordini di elementi, due dei quali ormai pacifici: il gruppo minoritario è composto da persone che possiedono lo status di cittadinanza (criterio della cittadinanza); è individuato sulla base della rilevante presenza di tali cittadini con cultura, lingua, religione o “etnia” differente rispetto della maggioranza del popolo dello Stato in una porzione del territorio statale (criterio territoriale). Su un terzo elemento, invece, vi è forte controversia: l’appartenenza al gruppo è determinata da condizioni di fatto o dalla volontà della persona di ritenersi parte di un gruppo minoritario (criterio fattuale o volontaristico). La circostanza che la condizione giuridica degli appartenenti alle minoranze nazionali sia stata ritenuta di dominio riservato degli Stati e, nel secondo Novecento, l’emersione negli ordinamenti costituzionali europei di una disciplina dei rapporti fra Stato e cittadini fondata sul principio personalista, ha inciso sull’attuale disciplina delle minoranze linguistiche storiche determinando, almeno per l’esperienza italiana, l’applicazione della regola per cui l’appartenenza alla minoranza è effettuata sulla base della volontà della persona e non in seguito all’accertamento di particolari condizioni di fatto in cui tale persona si trova. Inoltre, per l’esperienza italiana, si registra una graduale sostituzione dell’uso dell’espressione minoranze nazionali con quella di minoranze linguistiche riconosciute, dovuta all’intervento della giurisprudenza costituzionale e, successivamente, di minoranze linguistiche storiche, dovuta all’intervento del legislatore statale e, quindi, all’abbandono del concetto giuridico di minoranza etnica. La disciplina dell’uso della lingua assume invece caratteri differenti laddove regola i rapporti fra Stato e gruppi minoritari di cui si registra la presenza sul territorio statale dopo la conclusione del processo di formazione dello Stato: le nuove minoranze. Nelle società multiculturali, in particolare, la disciplina di cui si tratta, condiziona i rapporti della maggioranza con i gruppi degli immigrati (assimilazione, percorso giuridico che porta alla cittadinanza e con quello dei meteci (percorso giuridico verso la separazione). La disciplina giuridica dell’uso della lingua concorre oggi anche a definire il perimetro concettuale entro cui si dibatte di una annosa questione: la definizione del concetto di minoranza ed, in particolare, di quello di minoranza linguistica. Incidere sull’uso della lingua nei rapporti di lavoro e con la pubblica amministrazione da parte delle comunità umane presenti sul territorio statale, significa concorrere a determinare l’esistenza o la scomparsa di una comunità di persone stabilmente presente nel territorio dello Stato che presenta caratteri differenti rispetto alla maggioranza della popolazione. È ovvio a questo punto che il tema della disciplina giuridica dell’uso della lingua s’intreccia, da un lato, con la disciplina della lingua ufficiale dello Stato – ove prevista – e, dall’altro, con la tutela giuridica delle lingue minoritarie... (segue)
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