Ripercorrere le tappe della nomina di Neil Gorsuch come nuovo giudice della Corte Suprema degli Stati Uniti (justice), nomina proposta a febbraio dal Presidente Trump e confermata il 7 aprile scorso dal Senato con un voto a maggioranza semplice, significa dover affrontare una triplice serie di questioni: la prima, di carattere propriamente politico, concerne in particolare i rapporti di forza tra i due maggiori partiti politici di livello federale, ovvero il Partito Democratico e quello Repubblicano; la seconda, è relativa invece alle procedure parlamentari (o meglio, congressuali) e alle loro revisioni; la terza, infine, strettamente legata alle modifiche delle procedure del Senato, è quella relativa ai rapporti tra i massimi poteri dello Stato, in particolare i rapporti che intercorrono tra il Senato ed il Presidente degli Stati Uniti. Il 13 febbraio 2016, in piena campagna elettorale presidenziale, è venuto a mancare Antonin Gregory Scalia, storico justice della Corte Suprema statunitense, nominato nel 1986 dall’allora Presidente Ronald Reagan. Scalia era uno dei massimi esponenti della dottrina della interpretazione “originalista” della Costituzione e poteva essere annoverato tra la schiera dei giudici supremi orientativamente indicata come “conservatrice”. Come ben ricordato da Andrea Buratti, che riprendeva in tal senso J. G. Wofford, l’originalismo interpretativo consisterebbe “in tre distinte operazioni: il ricorso alle intenzioni dei padri fondatori, il ricorso al significato della terminologia costituzionale, il ricorso alla comprensione del problema all’origine della formulazione delle disposizioni costituzionali”. In tal modo però emergerebbe, come sottolineato dallo stesso Buratti, un insieme “molto articolato di prassi interpretative” che lasciano spazio a differenti definizioni, anche contraddittorie, dello stesso concetto di “originalismo”. L’originalismo di Scalia è riconducibile invero al rifiuto dell’idea di una “Costituzione vivente”, ed accoglie invece un approccio “testualista” che contesta chi, attraverso un ragionamento di carattere “teleologico”, cerca di dare invece una “lettura generosa” della Carta costituzionale, traendone principi non ricavabili nel testo, e tradendone così i fini stabiliti nel momento in cui questa fu adottata. È dunque in questo senso che si può ritenere l’approccio di Scalia come “conservatore”, anche se bisogna tenere conto del fatto che il “conservatorismo” degli originalisti come Scalia non è del tutto assimilabile al “conservatorismo” proprio del Partito Repubblicano, e che pertanto gli orientamenti giurisprudenziali dei giudici supremi (judicial philosophy) “conservatori” non devono essere confusi con la sfera dei valori politici afferibili al GOP (acronimo con cui viene indicato storicamente il Partito Repubblicano), sebbene i due sistemi valoriali siano spesso collimanti e si influenzino vicendevolmente. Lo stesso Scalia tendeva anzi a rigettare, seppure in parte, alcuni dei principali elementi del conservatorismo repubblicano propriamente inteso, ed in particolare quelli relativi ai rapporti tra poteri statali e potere federale (tale rapporto è anzi considerato il perno su cui si fonda lo stesso approccio all’interpretazione costituzionale di stampo originalista). Se i Repubblicani da un lato si ergono a difensori dei primi, contrastando dunque il cosiddetto “big government”, ovvero opponendosi all’interventismo del Governo federale, Scalia, dall’altro, riteneva necessario preservare il principio dell’unità del Governo federale ed impedire in tal senso una riduzione degli ostacoli posti dal legislatore nei riguardi delle prerogative del Presidente stabilite in Costituzione (vedi ad esempio Printz v. United States del 1997, Morrison v. Olson del 1988 e Mistretta v. United States del 1989)... (segue)
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