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NUMERO 10 - 17/05/2017

 Può la Corte ampliare il contenuto necessario della legge delega ex art. 76 Cost?

La Corte costituzionale ha parzialmente accolto il ricorso della Regione Veneto avverso la legge n. 124 del 2015 (c.d. Legge Madia) di riforma della pubblica amministrazione. Una legge che disciplina plurime materie e che, ai sensi dell’art. 76 della Costituzione, delega il Governo per l’esercizio della funzione legislativa; una delega, questa, che in parte l’esecutivo ha già esercitato o è in corso di esercizio alla data della decisione dalla quale si prende spunto per queste prime brevi riflessioni. Muoviamo da un passaggio specifico della decisione con la quale la Corte costituzionale ha dichiarato l’illegittimità costituzionale delle legge n. 124 del 2015 nella parte in cui sarebbe lesiva del principio di leale collaborazione tra lo Stato e le Regioni. La Corte costituzionale spiega che “È pur vero che questa Corte ha più volte affermato che il principio di leale collaborazione non si impone al procedimento legislativo. Là dove, tuttavia, il legislatore delegato si accinge a riformare istituti che incidono su competenze statali e regionali, inestricabilmente connesse, sorge la necessità del ricorso all’intesa. Quest’ultima si impone, dunque, quale cardine della leale collaborazione anche quando l’attuazione delle disposizioni dettate dal legislatore statale è rimessa a decreti legislativi delegati, adottati dal Governo sulla base dell’art. 76 Cost.”. Si tratta di un ragionamento che pone in evidente distonia – per quanto riguarda i rapporti tra lo Stato e le Regioni – la fonte normativa ordinaria che disciplina direttamente una materia (che parrebbe essere più protetta dalle “esigenze collaborative” tra i due legislatori della Repubblica) e la medesima fonte che prevedesse una delega al Governo ex art. 76 Cost. per porre le norme di uno specifico settore. Nel primo caso, infatti, sembrerebbe non possibile “scaricare” sull’iter legis e sul contenuto della decisione legislativa statale le esigenze collaborative rese tali dall’intersecarsi delle materie tra competenze statali e regionali, mentre nel secondo caso ciò potrebbe avvenire (anzi, come diremo, deve avvenire) perché l’iter di formazione del decreto legislativo è tale da fornire spazio all’inserimento di moduli concertativi in quando disciplinato dalla legge di delegazione; sono ancora parole della Corte costituzionale: “tali decreti, sottoposti a limiti temporali e qualitativi, condizionati quanto alla validità a tutte le indicazioni contenute non solo nella Costituzione, ma anche, per volontà di quest’ultima, nella legge di delegazione, finiscono, infatti, con l’essere attratti nelle procedure di leale collaborazione, in vista del pieno rispetto del riparto costituzionale delle competenze”. Ciò significa, a modesto parere di chi scrive, che ogniqualvolta il legislatore statale deleghi l’esercizio della funzione legislativa al Governo ex art. 76 Cost. deve valutare l’incidenza delle proprie scelte sulle materie e sugli interessi regionali e inserire necessariamente – ripeto necessariamente – un modulo di leale collaborazione adeguato da seguire nell’adozione dei decreti legislativi. Scelta, quest’ultima, che sarà poi valutata nella sua ragionevolezza dal Giudice delle leggi che, in ragione dell’intreccio delle competenze ex art. 117 Cost., potrà verificare dello strumento concertativo adottato rispetto alle esigenze collaborative. Ciò con una ulteriore rilevante conseguenza che incide sulla certezza del diritto visto che si proporrebbe, per ogni giudizio nel quale fosse accolta la questione di legittimità costituzionale, quanto accaduto con la pronuncia in esame ossia l’incertezza del destino dei decreti legislativi già adottati o in fase di adozione, oltre che della delega stessa nella sua componente “correttiva”. Non è questa la prima pronuncia con la quale la Corte costituzionale ha imposto al legislatore statale formule collaborative nei casi in cui la materia oggetto della legislazione statale interferisse o si sovrapponesse con le materie assegnate dalla Costituzione alla Regione a titolo di legislazione concorrente o residuale. L’elemento innovativo – e da esaminare con attenzione per l’impatto che ha sul sistema delle fonti del diritto – è il fatto che per la prima volta non il contenuto degli atti sub-legislativi (piani, programmi, autorizzazioni, concessioni, etc….) ma di una fonte primaria deve essere “trattato” tra i due legislatori; “negoziato”, potremmo forse dire, sempre con i limiti che a breve evidenzieremo. La Corte costituzionale, grazie alla breccia procedurale aperta dallo schema “legge di delegazione-decreto legislativo”, interviene dunque sui contenuti della legge di delega nella misura in cui ne amplia gli elementi di fatto costituzionalmente necessari; oltre materia-oggetto, tempo e principi e criteri direttivi, dunque, ogni legge di delega che interferisse con settori regionali rendendo necessarie formule collaborative tra Stato e Regioni dovrà contenere adeguati moduli di “leale collaborazione”. Non sembra di poter qualificare i “moduli collaborativi” come contenuto ulteriore della legge di delega che si impone al delegato, ma come un contenuto necessario pena l’incostituzionalità – come nel caso di specie – della legge di delega (e la trasformazione, come efficacemente afferma D’Amico, dei decreti legislativi in dead men walking). La procedura del decreto legislativo, dunque, se da un lato porge il fianco alla “negoziazione” tra i legislatori (come vedremo però con molti limiti quindi in realtà una “para-negoziazione”), dall’altro differenzia due fonti “concorrenti” come legge ordinaria e legge delega trattando con un tono “sub-legislativo” i decreti legislativi “para-negoziati”. Si tratta in realtà di un tema non nuovo, per cui già parte della dottrina aveva sottolineato una certa “potenziale vocazione alla secondarietà” del decreto legislativo, ma che oggi assume certamente contorni nuovi... (segue)



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