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NUMERO 16 - 09/08/2017

 Brexit e università

Valutare quali possano essere gli effetti di Brexit sul settore universitario significa misurarsi con le stesse incertezze delle quali sono oggetto contenuti ed esiti dei negoziati che accompagneranno l’uscita del Regno Unito dall’Unione Europea, voluta dai cittadini britannici in occasione del referendum celebrato il 23 giugno 2016 e formalmente notificata al Consiglio Europeo il 29 marzo 2017. La misura e l’incidenza di queste incertezze sono tuttavia da una parte accresciute, dall’altra, potrebbe dirsi, “normalizzate” dalla circostanza che l’Università, come più ampiamente l’istruzione, pur inclusa tra gli ambiti di competenza UE dal Trattato sull’Unione Europea, firmato a Maastricht il 7 febbraio 1992, sia tra i settori che hanno maggiormente resistito al processo di integrazione comunitaria. Sebbene il  successivo Trattato di riforma, firmato a Lisbona il 13 dicembre 2007, abbia  previsto un rafforzamento dei poteri assegnati al Parlamento europeo e dello stesso ruolo esercitabile dall’UE nelle materie di competenza, l’istruzione, anche quella superiore di livello universitario, continua infatti a rientrare nel novero degli ambiti assegnati alla “responsabilità degli Stati membri”, in quanto spazio di espressione delle identità nazionali  e di affermazione delle diversità culturali al cui rispetto l’Unione è impegnata. In questo senso, l’art.165, paragrafo 1, del Trattato sul funzionamento dell’Unione Europea, ripetendo la formulazione originaria di Maastricht, stabilisce che: “L’Unione contribuisce allo sviluppo di un’istruzione di qualità incentivando la cooperazione tra Stati membri e, se necessario, sostenendo ed integrando la loro azione nel pieno rispetto della responsabilità degli Stati membri per quanto riguarda il contenuto dell’insegnamento e l’organizzazione del sistema d’istruzione, nonché delle loro diversità culturali e linguistiche”. In relazione all’Università, e più ampiamente all’istruzione, l’Unione Europea può pertanto svolgere mere “azioni intese a sostenere, coordinare o completare l’azione degli Stati membri, senza tuttavia sostituirsi alla loro competenza” (artt.2, comma 5 e 6, TFUE) e perciò senza possibilità di intervenire, con misure di armonizzazione, sulle legislazioni nazionali. Questa scelta di salvaguardare le politiche degli Stati spiega pertanto come l’Università in Europa viva di differenze più che di vicinanze, peraltro consegnate alle sole azioni di sostegno e di coordinamento funzionali al perseguimento degli obiettivi che l’Unione si è data in proposito, fra i quali: favorire la mobilità degli studenti e degli insegnanti, promuovendo il riconoscimento accademico dei diplomi e dei periodi di studio; sostenere la cooperazione tra gli istituti di insegnamento; sviluppare lo scambio di informazioni e di esperienze sui problemi comuni ai sistemi di istruzione (art. 165 TFUE, par.2). Obiettivi che definiscono, pertanto, anche il perimetro degli interventi possibili all’Unione comunque impegnata, nell’ambito della Strategia Europa 2020 per una crescita intelligente, sostenibile e solidale a promuovere investimenti  più efficaci da parte degli Stati nel settore dell’istruzione, della ricerca e dell’innovazione, a tal fine anche incrementando  il numero di coloro, fra i 30 e i 34 anni, che completano il percorso di istruzione superiore nonché rendendo effettivi l’apprendimento permanente e la mobilità. Da questi spazi di azione possibili all’Unione, le vicinanze conseguite innanzi tutto tramite il processo di Bologna, avviato nel 1999, per rendere più compatibile e comparabile l’architettura dei sistemi formativi, così da agevolare  anche il riconoscimento reciproco dei titoli di studio. Passaggi essenziali alla costruzione di quella che, con la dichiarazione ministeriale Budapest-Vienna del marzo 2010, sarebbe diventata la European Higher Education Area (EHEA)... (segue)



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