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NUMERO 21 - 08/11/2017

 Dallo Stato di diritto allo Stato di sicurezza?

In epoca recente, e quanto meno a partire dall’attentato terroristico dell’11 settembre del 2001 negli Stati Uniti, l’agenda politica delle istituzioni occidentali è stata costantemente condizionata dall’esigenza di individuare un nuovo equilibrio nella tutela del bene della libertà in rapporto al bene della sicurezza. Il terrorismo internazionale, in particolare quello di matrice islamica, a prescindere dalle sigle che lo hanno identificato (da Al Quaeda all’ISIS), ha infatti indubbiamente determinato, e determina ancora, una costante minaccia per la sicurezza della popolazione civile degli Stati colpiti. Sin dagli attentati del 2001, l’interpretazione mediaticamente dominante ha ripetutamente individuato tanto nelle scelte di politica internazionale e nello stile di vita occidentali, quanto nei fondamenti etici e culturali dell’Europa continentale e del mondo di matrice anglosassone, gli autentici bersagli degli atti di terrorismo. Si tratta, naturalmente, di un’interpretazione condizionata dalla caratterizzazione comunque religiosa di gran parte di tali atti, e in qualche modo giustificata dai proclami trasmessi dagli attentatori a sostegno delle loro azioni suicide, nonché dai disegni geopolitici dei cosiddetti signori del terrore. D’altra parte, a tale interpretazione, volta a qualificare il terrorismo contemporaneo come un attacco alla civiltà occidentale, è costantemente seguita un’idea guida intesa quale unica risposta possibile: la necessità di confermare e consolidare l’ethos occidentale, e quindi i principi che identificano la nostra civiltà (dall’autodeterminazione individuale alla laicità dello Stato, dalle garanzie giuridiche per gli individui contro le indebite interferenze dello Stato alla libertà della scienza e al pluralismo culturale). Quante volte, infatti, abbiamo assistito, all’indomani di gravi attentati terroristici, ai solenni discorsi pubblici dei principali leader mondiali infarciti di slogan come: “Non ci faremo intimidire”, “Non cambieremo stile di vita”, “Non rinunceremo alla nostra libertà”? Dichiarazioni certamente comprensibili e funzionali, del resto, alla tenuta del legame sociale in frangenti drammatici nei quali la paura e il conseguente disorientamento possono prendere il sopravvento. Ma, alla solennità di queste affermazioni, sono seguite decisioni politiche e istituzionali coerenti? Alla legittima retorica dell’apertura culturale come migliore risposta a coloro che metterebbero a repentaglio la nostra civiltà, è corrisposta la realtà di azioni concrete volte, ad esempio, a tutelare con maggiore vigore i diritti di libertà di ciascun individuo, a prescindere dalla nazionalità? O, al contrario, si è affermata la tendenza, a volte esplicita, altre volte implicita, a restringere gli spazi di libertà tradizionalmente garantiti dalle istituzioni occidentali, al fine di garantire il bene primario, più che mai date le circostanze, della sicurezza? Leggendo la copiosa letteratura sul tema, formatasi a partire dal periodo immediatamente successivo all’attacco alle Torri Gemelle negli Stati Uniti, sembrerebbe che le decisioni politiche e istituzionali siano state, in realtà, determinate da un orientamento diametralmente opposto a quello emerso nei discorsi ufficiali. Infatti, immediatamente dopo il settembre del 2001, questioni a dir poco controverse nei Paesi europei, come quelle relative al controllo dei confini, alle forme di cooperazione tra gli Stati per la creazione di sistemi di sorveglianza altamente pervasivi, si pensi ai congegni di identificazione biometrica, o come quelle relative più in generale alle politiche di sicurezza, si sono improvvisamente ridefinite in un inedito quadro di principi condivisi, sotto l’evidente pressione della minaccia terroristica. Solo per citare alcune tendenze, la Francia ha spostato l’attenzione politica sulla sicurezza interna, la Germania sui sistemi di controllo dei dati sensibili, l’Italia su misure più restrittive in tema di immigrazione, il Regno Unito sulla possibilità di rendere flessibili gli standard internazionali a protezione dei diritti umani in vista del bene supremo della sicurezza… (segue)



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