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NUMERO 21 - 08/11/2017

 La necessità della giustizia amministrativa

Difendere la giustizia amministrativa è divenuta un’impresa (quasi) temeraria. Eppure è una sfida che va raccolta. A fronte di sempre più pressanti, aspre e, a volte, radicali critiche (Prodi, Panebianco), formulate da più parti all’indirizzo della stessa ragion d’essere della giustizia amministrativa, sembra indispensabile la ricerca delle motivazioni originarie della sua esistenza e una verifica della loro persistente attualità. E l’indagine non può che muovere dalle parole di Silvio Spaventa, che, nel celebre discorso del 7 maggio 1880 all’Assemblea costituzionale di Bergamo, ammoniva che “le nostre amministrazioni, per difetto di vera giurisdizione del nostro diritto pubblico, minacciano di corrompersi irrimediabilmente a cagione di studio e interesse di parte”, avvertiva, al contempo, che la legge 20 marzo 1965 “abolendo radicalmente la giurisdizione (amministrativa NDR), privò molti interessi di qualsiasi guarentia di giustizia, e lasciò molti diritti senza più giudice in balìa dell’amministrazione ” in quanto “i tribunali si limiteranno a conoscere degli effetti dell’atto in relazione all’oggetto dedotto in giudizio, ma non possono né revocarlo né modificarlo”, segnalava, quindi, “la necessità di avere veri giudici e veri giudizi di diritto pubblico in tutte le sfere della nostra amministrazione” mediante “una semplice riforma delle attribuzioni del Consiglio di Stato” e col “perfezionamento di altri organi della giurisdizione amministrativa” concludendo che “finché noi non avremo fatto ciò, il nostro diritto pubblico rimarrà, per una gran parte, senza nessuna garanzia”. Così come non può trascurarsi che lo stesso Spaventa, una volta ripristinata la giurisdizione amministrativa (come da lui stesso auspicato pochi anni prima), nel discorso per l’inaugurazione della IV Sezione del Consiglio di Stato, osservava che “la libertà e indipendenza dell’amministrazione dall’autorità giudiziaria non è quella di un’attività irrazionale e irresponsabile, senza scopo o con scopi egoistici e personali; ma ha norme proprie e connaturali ai fini, che essa è obbligata a osservare”, che nella nuova giurisdizione amministrativa “non si tratta di definire controversie nascenti dalla collisione di diritti individuali e omogenei, ma di conoscere solamente se il diritto obiettivo sia stato osservato” e si sviluppa “con tali forme processuali e con tale efficacia d’imperio sopra qualunque arbitrio amministrativo”, quando, in particolare, gli atti amministrativi producono “restrizioni maggiori di quello chè è richiesto necessariamente dall’interesse generale” e tradiscono il “dovere di procurare il pubblico bene”. L’origine della giustizia amministrativa, come si vede, è essenzialmente liberale, tanto che Spaventa la connette alla regola generale, per come mirabilmente descritta da Romagnosi, di “far prevalere la cosa pubblica alla privata co ‘l minimo possibile sacrificio della privata proprietà e libertà”; sicchè le funzioni pubbliche dovrebbero essere regolate (e il loro corretto esercizio dovrebbe essere giudicato) in modo da perseguire l’interesse generale con il minor danno possibile dei diritti e degli interessi dei consociati. Si tratta del più immediato corollario del principio di legalità, su cui si reggono le democrazie liberali occidentali, nella misura in cui postula che la legge debba stabilire le condizioni che autorizzano la limitazione dei diritti e delle libertà dei cittadini da parte della pubblica autorità (M. Weber). A sua volta l’anzidetta regola costituisce l’architrave dello Stato di diritto che, secondo quanto osservava Santi Romano già nel 1909, “dotato di un potere, che non ripete se non dalla sua stessa natura e dalla sua forza, che è la forza del dirittosi eleva al di sopra degli interessi non generali, contemperandoli e armonizzandoli”. Le ragioni della giustizia amministrativa venivano, quindi, identificate nell’esigenza di affidare a un giudice diverso da quello ordinario, ontologicamente e funzionalmente incapace di provvedervi, la tutela delle posizioni soggettive (per lo più di libertà) incise dal potere pubblico. Secondo Spaventa, in sintesi, solo la giustizia amministrativa è in grado di assicurare ai cittadini un’adeguata protezione dalle deviazioni e dalle distorsioni nell’amministrazione delle funzioni pubbliche, che egli collega a una loro gestione di parte e politicamente inquinata (ma che trova più frequentemente cause meno sviate, ancorchè parimenti lesive). In definitiva, né la giurisdizione ordinaria, strutturalmente concepita per giudicare dei diritti nascenti da relazioni giuridiche paritetiche, né, tantomeno, la stessa e sola amministrazione (in quanto naturalmente e inevitabilmente incline a difendere sé stessa) sono in grado di assicurare quella tutela delle libertà e degli interessi che, inevitabilmente coinvolti nell’amministrazione delle potestà pubbliche, ne vengono illegittimamente sacrificati. E’ stata, successivamente, indicata anche un’altra ragione costituiva della giustizia amministrativa: la funzione di presidio dell’attuazione dell’imperium consacrato nella norma attributiva del potere. Secondo questa lettura (L. Torchia) la giustizia amministrativa si atteggia come un Giano bifronte: allo stesso tempo garante dei diritti e degli interessi degli amministrati e custode della realizzazione della volontà trasfusa dal legislatore nella funzione assegnata all’autorità pubblica. Si tratta di una ricostruzione vera, ma, al contempo, fallace: vera, in quanto rivela un carattere senz’altro autentico della funzione del giudice amministrativo (il controllo della compiuta realizzazione dell’interesse generale, per come implicato dal legittimo esercizio della funzione alla cui soddisfazione risulta preordinata); fallace, se intesa come dicotomica rispetto al suo compito di garanzia della sfera giuridica dei privati da indebite e illegali ingerenze dell’autorità amministrativa. Non si tratta, infatti, di una duplice funzione, intrinsecamente antinomica o schizofrenica. Al contrario, il giudizio sulla coerenza della declinazione provvedimentale del potere con il paradigma normativo di riferimento serve a verificare, al contempo, il più compiuto e legittimo espletamento della potestà pubblica finalizzata alla realizzazione dell’interesse generale e la tutela della sfera giuridica dei privati da un esercizio distorto, sviato o, comunque, illegale della funzione. Il prodotto di un corretto giudizio amministrativo dovrebbe, in sintesi, condurre, in ogni caso, alla contestuale realizzazione dell’interesse pubblico e alla protezione di quello privato: sia se si risolva in un giudizio di illegittimità (giacché rivelerebbe un tradimento del corretto esercizio del potere e, quindi, anche della realizzazione legale dell’interesse generale); sia se si risolva nella conferma della correttezza dell’attività amministrativa contestata (in quanto riscontrerebbe che la lamentata lesione degli interessi privati resta giustificata da un’attuazione del potere rispettosa del principio di legalità). La funzione, in definitiva, è unitaria: il controllo del corretto esercizio del potere, nella duplice e inscindibile prospettiva del presidio della realizzazione della volontà pubblica e della garanzia delle situazioni soggettive dei privati in essa coinvolte. L’ottica della custodia dell’attuazione dell’auctoritas compendiata nella norma attributiva del potere, in ogni caso, non sminuisce in alcun modo la consistenza della “causa” più profonda dell’istituzione della giustizia amministrativa: la protezione degli amministrati da abusi o violazioni commessi in loro danno dall’autorità pubblica… (segue)



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