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NUMERO 22 - 22/11/2017

 Autonomie territoriali e assetto della finanza locale

A quasi dieci anni dalla legge n. 42 del 2009 sul federalismo fiscale e a oltre quindici anni dall’entrata in vigore della legge costituzionale n. 3 del 2001 sulla riforma del Titolo V della Parte II della Costituzione sembra quanto mai opportuno svolgere una riflessione sulla finanza e sui tributi locali e, più in generale, sulle sorti del disegno autonomistico, tanto più dopo il fallimento della riforma costituzionale. L’intento di questo intervento è quello di tracciare un quadro introduttivo su alcuni dei temi oggetto del dibattito odierno, muovendo dalla cornice costituzionale dell’assetto della finanza e dei tributi degli enti sub-statali, uno degli aspetti su cui si registra l’incompiuta attuazione dei principi costituzionali. Il contributo è articolato nei seguenti termini: 1) introduzione in chiave ricostruttiva sull’autonomia finanziaria e tributaria degli enti territoriali sino alla legge n. 42 del 2009 e ai problemi ancora pendenti in relazione alla sua difficile attuazione; 2) esame dello stato dell’arte della finanza territoriale, sia sul versante della spesa, sia su quello delle entrate, guardando, in particolare, alla c.d. legislazione della crisi, che ha rafforzato il coordinamento della finanza pubblica rispetto al sistema delle autonomie; 3) analisi della situazione attuale della finanza locale, soffermando la riflessione anche sulla distinzione tra la condizione dei Comuni delle regioni a statuto ordinario e quella degli enti locali delle autonomie speciali, per svolgere qualche riflessione conclusiva sulle possibili prospettive di reinserimento degli enti territoriali nei processi decisionali. In via preliminare, occorre ricordare che l’attuale assetto della finanza e dei tributi degli enti sub-statali sconta ancora l’incompiuta attuazione dei principi costituzionali, come ripetutamente osservato dalla giurisprudenza costituzionale, anche nella fase successiva alla legge n. 42 del 2009 e ai relativi decreti legislativi attuativi (ad esempio, in maniera esemplificativa, sent. n. 273 del 2013). Ciò ha consentito di giustificare incursioni del legislatore statale in materie di competenza regionale (anche) in ragione della perdurante inattuazione dell’art. 119 Cost., che disciplina e garantisce l’autonomia finanziaria e tributaria degli enti territoriali. Basti pensare, a titolo meramente esemplificativo, a comparti come il trasporto pubblico locale, rispetto al quale il Giudice delle leggi ha più volte affermato che, stante il mancato completamento del disegno riformatore contenuto nella legge n. 42 del 2009, devono ritenersi giustificati meccanismi che penalizzano l’autonomia locale in quanto necessari ad assicurare il finanziamento dei servizi. Al riguardo, occorre ricordare che le norme costituzionali, pur delineando un modello sufficientemente “aperto” di finanza territoriale, suscettibile di oscillazioni ora in favore del principio autonomistico, ora a tutela delle imprescindibili istanze unitarie, sono poste direttamente a presidio degli enti locali per assicurare l’autogoverno e la differenziazione, affermando la facoltà di stabilire “tributi ed entrate propri, in armonia con la Costituzione e secondo i principi di coordinamento della finanza pubblica e del sistema tributario”. Ne consegue che il profilo maggiormente qualificante dell’autonomia – quello appunto finanziario e tributario – dovrebbe consentire agli enti locali anzitutto di disporre dell’indirizzo di spesa e della potestà impositiva, sia pure secondo i principi di coordinamento della finanza pubblica e del sistema tributario che discendono dall’art. 117, terzo comma, Cost., nonché dagli obblighi di solidarietà e di perequazione, funzionali ad attenuare le asperità fiscali e gli squilibri territoriali (artt. 2, 5 e 119,  Cost.), e, in secondo luogo, di assicurare il finanziamento integrale delle funzioni e la necessaria correlazione quantitativa tra funzioni e risorse, giustiziabile davanti alla Corte costituzionale (ad esempio: sentt. n. 22 del 2012; n. 82 e n. 188 del 2015; n. 151 del 2016). La stessa riserva di legge, posta dall’art. 23 Cost., in materia di prestazioni patrimoniali, secondo la dottrina prevalente può essere soddisfatta anche da fonte regionale, lasciando così ampio spazio – sinora largamente inesplorato, anche dalla legge n. 42 del 2009 – in favore dell’autonomia locale. In questa prospettiva, deve rammentarsi come il Comune, quale ente esponenziale degli interessi della comunità di base, costituisca l’istituzione fondamentale per assicurare la crescita e lo sviluppo economico, in quanto, tra l’altro, è proprio a livello locale che è più facile attrarre investimenti e favorire la ripresa. Al contrario, l’evoluzione dell’assetto della fiscalità comunale ha visto un consistente allontanamento dai principi costituzionali, segnando l’utilizzo del potere impositivo in contrasto con il principio autonomistico, in quanto spesso funzionale a soddisfare le esigenze del legislatore statale di “fare cassa” per fronteggiare oneri finanziari che discendono da vincoli imposti dalla perdurante crisi economico-finanziaria e dalle conseguenti misure adottate dalle istituzioni europee. Con la legge n. 42 del 2009, dichiaratamente rivolta all’attuazione dell’art. 119 Cost., sembrava essere colmato il vuoto ripetutamente lamentato dalla giurisprudenza costituzionale, così mettendo in moto il processo di realizzazione del disegno autonomistico volto a contemperare le spinte egualitaristico-redistributive, proprie di ogni sistema di Welfare, con la naturale tendenza alla differenziazione, coltivata da ogni sistema autonomistico. Ciò passava, sul lato delle spese, per la valorizzazione della necessaria correlazione tra funzioni e risorse allocate ai diversi livelli territoriali di governo, e, su quello delle entrate, per il largo ricorso alle compartecipazioni al gettito di tributi erariali secondo il principio della territorialità dell’imposta, nonché per lo “sdoganamento” dei tributi propri derivati, messi in maggiore disponibilità delle regioni e, sia pure in misura minore, degli enti locali. Il quadro era opportunamente completato dall’introduzione di forme “premiali” di fiscalità di vantaggio e dalla transizione dal criterio della spesa storica a quello dei costi standard nella determinazione delle risorse finanziarie necessarie allo svolgimento delle funzioni amministrative, uno dei profili maggiormente qualificanti e condivisi della riforma volto a neutralizzare le inefficienze allocative che si manifestano nei diversi contesti territoriali... (segue)



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