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NUMERO 22 - 22/11/2017

 Verso un'auspicabile stabilizzazione della legislazione elettorale italiana

L’evoluzione della legislazione elettorale italiana, specie per come si è dipanata nella legislatura in corso, è davvero peculiare, e ha suscitato una notevole attenzione anche al di fuori dei nostri confini. Due sentenze della Corte costituzionale, la n. 1 del 2014 e n. 35 del 2017, che, nell’arco di poco più di tre anni, hanno dichiarato l’illegittimità costituzionale di norme cruciali di due leggi elettoraligià appaiono un fatto inedito, di straordinario rilievo. Se a ciò si aggiunge la concreta prospettiva che un’elezione si svolgesse sulla base di una normativa per larga parte risultante, rispettivamente per il Senato e per la Camera, dalle due suddette sentenze, la peculiarità della vicenda, comprensibilmente, si accresce ulteriormente. Non capita così di frequente che leggi elettorali siano “(ri)scritte”, per punti molteplici e significativi, da un giudice costituzionale. Per chiarire da subito la mia posizione, ritengo positivo che la Corte costituzionale abbia superato, sia pure in circostanze eccezionali, la “zona franca” che in proposito, anche per effetto dell’art. 66 Cost., si era andata creando e abbia reso sindacabili le leggi elettorali per Camera e Senato, vincolandole al rispetto dei principi costituzionali sul diritto di voto e sulla rappresentanza politica. Lo ha fatto, ricorrendo ad un’interpretazione assai lasca dei requisiti richiesti per l’accesso in via incidentale, come è noto e come è stato segnalato da larga parte della dottrina costituzionalistica. Ma lo ha fatto, in un primo momento, al fine precipuo di poter porre rimedio ai danni – in termini di costituzionalità e di funzionalità – originati dalla legge sulla cui base si sono svolte le elezioni del 2006, del 2008 e poi del 2013. Una legge, la n. 270 del 2005 (giornalisticamente presentata come “Porcellum”), approvata dalla (sola) maggioranza di centro-destra sul finire della XIV legislatura, con finalità legate alla situazione contingente (la volontà di evitare o comunque di limitare, per quanto possibile, una sconfitta elettorale data per scontata) e per effetto del ricorso a non poche forzature procedurali; promulgata, dopo non pochi dubbi, dall’allora Presidente della Repubblica Ciampi; già oggetto di ripetuti “moniti” da parte della Corte costituzionale, che ne aveva evidenziato il vizio di costituzionalità più evidente (l’attribuzione di un quorum senza la necessità di alcuna soglia minima); sottoposta a due referendum abrogativi, uno (nel 2009) fallito per mancanza del quorum strutturale e l’altro (nel 2012) dichiarato inammissibile dalla Corte costituzionale; nel frattempo, oggetto, in tutto questo arco temporale, di numerosi tentativi di riforma in sede parlamentare, nessuno dei quali evidentemente giunto a buon fine. In questa chiave, e soprattutto per questa ragione – oltre che per un motivo ulteriore, relativo alla collocazione della legge elettorale nel sistema delle fonti, su cui tornerò in conclusione – ritenevo e tuttora ritengo positiva la previsione, inserita nella riforma costituzionale respinta dal referendum del 4 dicembre 2016, volta a consentire un giudizio “preventivo” della Corte sulla costituzionalità sulle leggi elettorali, ad iniziativa delle minoranze parlamentari... (segue)



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