A questo intervento è stato dato un titolo che racchiude due parole chiave. Le parole sono “futuro” e “sistema”. Futuro del Parlamento. Sistema parlamentare. Si richiamano, così, due concetti che sono centrali in un discorso sul Parlamento. Futuro perché chi crede – giurista o semplicemente cittadino – nel Parlamento deve oggi sentire un po’ la forte voce simbolica della sentinella biblica che, da sempre, “nella notte profonda, vede” (o intuisce) “le prime luci dell’alba”. Compito difficile perché il malfunzionamento dell’istituzione, i continui cambiamenti e i dubbi sulla legislazione elettorale (Pasquino, Tarli Barbieri) rendono impetuoso il vento dell’antiparlamentarismo. Viviamo un viscido tempo in cui registriamo penose omissioni di senso politico, una intera legislatura perduta (Verzichelli), abnormi forzature di regolamenti parlamentari che rendono irriconoscibili le stesse scansioni processuali che, in Costituzione, ne sono il presupposto. Su queste patologie, l’antiparlamentarismo cerca di ancorare, perfino giuridicamente, la sua contestazione di fondo della democrazia parlamentare. E mette in discussione il complessivo istituto rappresentativo. È di fronte a questo nuovo “diciannovismo” – il primo fu proprio del fascismo nascente (e ne è vicino il centenario) – che si deve opporre una questione civile prima che di metodo giuridico. Precisamente quella che, su un ragionamento giuridico riformista, innesti anche un principio di etica democratica come ossatura della critica costituzionale. Saper vedere, cioè, aldilà del confuso esistente, la sostanza della posta in gioco: che è la permanenza del principio parlamentaristico nella sua essenza. Non solo come principio supremo normativo condensato nell’art. 139 sulla forma repubblicana. Ma anche, e soprattutto, come principio di civiltà del dialogo. Senza questa coscienza della coincidenza del parlamentarismo con i valori del dibattito, della argomentazione, della convivenza in contraddittorio, non c’è futuro. Sarà l’antiparlamentarismo a prevalere. Se ne vede la progressione. Dalla critica corriva ai privilegi di status dei singoli parlamentari alla richiesta di mandato imperativo. Dalla messa in discussione della validità della rappresentanza all’elogio della disintermediazione. Dalla esaltazione del voto automatico basato sull’informazione solitaria di massa alla contestazione della legittimità dell’intero istituto come riflesso dei vizi – veri o presunti – del sistema elettorale del momento. È una deriva eversiva. Contro cui è necessario che ogni pur fondato rilievo di vizi funzionali dell’istituto deve sempre coniugarsi e contemperarsi con lo sforzo di una re–invenzione, di un ritrovamento delle potenzialità parlamentari. Nella consapevolezza che solo da esse può venire la propulsione fondamentale della democrazia costituzionale. E anche la risposta alla domanda “un Parlamento per che cosa?” (Lupo). D’altra parte, non è mai buon giurista chi di qualsiasi istituto colga solo le criticità temporali e ne perda di vista la ratio e non ne veda tendenze di vitalità e non ne indichi sviluppi coerenti con la sua intima natura... (segue)
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