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NUMERO 24 - 20/12/2017

 Riflessioni sulla natura del ricorso straordinario al Presidente della Repubblica

L’istituto del ricorso straordinario al Presidente della Repubblica rappresenta una delle tematiche di giustizia amministrativa più dibattute e controverse. Nato in un'epoca storica del tutto differente e ricalibrato agli inizi degli anni Settanta del secolo scorso con il D.P.R. n. 1199 del 1971, nonostante gli innegabili vantaggi, è stato considerato da più parti superato o obsoleto, oppure un doppione del ricorso giurisdizionale amministrativo; motivo per cui se ne è talvolta auspicata l'abolizione. Solo da qualche anno è risultato rivitalizzato, soprattutto per via della crisi del sistema giurisdizionale amministrativo, della lentezza cronica dei processi e dei costi elevati da sostenere per intraprenderli e portarli a conclusione.

Il rimedio in esame è, peraltro, ammesso per soli motivi di legittimità, ma tale circostanza non pare interdire necessariamente, almeno in linea di principio e nonostante l'ampio fronte dottrinario e giurisprudenziale avverso, il suo esperimento in materie di giurisdizione estesa al merito, qualora il ricorrente si limiti a dedurre vizi di sola legittimità e a richiedere il mero annullamento dell'atto gravato.

Allo stato attuale, comunque, la questione più controversa e rilevante, non solo dal punto di vista teorico ma anche e soprattutto per quelli che sono i relativi riflessi sul piano concreto, verte sulla natura da attribuire al decreto presidenziale decisorio, ovvero al parere del Consiglio di Stato che lo indirizza in maniera assolutamente determinante.

Come è noto, la L. n. 69 del 2009 ha trasformato il parere reso in tale procedura da “relativamente vincolante” a “conforme” e ha riconosciuto espressamente allo stesso organo consultivo la facoltà di sollevare la questione di legittimità costituzionale di una o più norme la cui applicazione si renda necessaria al fine di definire il contenuto del parere.

In seguito, il codice del processo amministrativo di cui al D. L.vo n. 104 del 2010, agli artt. 7, 48 e 112, ha disciplinato alcuni profili che interessano il ricorso straordinario e, più a margine, il D. L. n. 98 del 2011, convertito, con modificazioni, dalla L. n. 111 del 2011, ha introdotto, anche per esso, il pagamento di un contributo unificato.

Queste innovazioni normative, secondo la prevalente giurisprudenza della Suprema Corte e del Consiglio di Stato e una parte cospicua della dottrina, sarebbero sintomatiche di un vero e proprio mutamento del rimedio, divenuto ormai di natura giurisdizionale o sostanzialmente tale, ad esplicazione del relativo potere.

Anche la Corte cost., con la sent. n. 73 del 2014, ha riconosciuto, in certa misura, una variazione significativa dell'istituto, collocato in una posizione prossima a quella giurisdizionale, pur qualificandolo, più prudentemente, come rimedio amministrativo giustiziale. In effetti, vi sono numerosi elementi di similitudine o di vicinanza al ricorso giurisdizionale amministrativo, sebbene gli argomenti offerti dalla giurisprudenza e dalla dottrina sembrino insoddisfacenti ed inadeguati a suffragarne la integrale parificazione.

Il rimedio straordinario, per la natura e la posizione delle soggettività pubbliche coinvolte e per le caratteristiche della relativa procedura, non è connotato da elementi e garanzie identici a quelli propri del giudizio amministrativo e della dialettica processuale. La decisione presidenziale non appare perfettamente equiparabile ad una sentenza, né la funzione svolta dal Consiglio di Stato può qualificarsi come giurisdizionale, essendo necessaria, per tale inquadramento, la categorica e contestuale ricorrenza di requisiti di carattere soggettivo e oggettivo, formale e sostanziale.

Ne consegue, tra l'altro, che non dovrebbe ritenersi praticabile, nonostante l'indirizzo opposto della Suprema Corte, il ricorso in Cassazione per violazione dei limiti posti dal codice del processo amministrativo, all'art. 7, comma 8, alla possibilità del suo esperimento.

Per altro verso, appare sintomatico il fatto che alla procedura in esame siano applicabili, in quanto compatibili con il suo carattere contenzioso, le norme generali dell'azione amministrativa contenute nella L. n. 241 del 1990 e successive modifiche.

I limiti e le attenuazioni insiti nell'istituto hanno fatto emergere dubbi di legittimità costituzionale, spesso ridimensionati dalla constatazione che si tratta pur sempre di un rimedio aggiuntivo ed alternativo a quello giurisdizionale, fruibile, in unico grado, per libera e consapevole opzione delle parti. Invero non sembra particolarmente fondata l’ipotesi, talvolta avanzata, della lesione di norme costituzionali, in special modo degli artt. 3, 24, 100, 111 e 113, Cost., tenendo conto delle diversità e delle peculiarità connaturate alla tipologia di rimedio in questione rispetto all’ordinario processo amministrativo. Del resto, le perplessità appaiono dissipabili per la presenza, nel nostro sistema processuale civile e penale, di riti semplificati, abbreviati o accelerati che si pongono, in qualche misura, in una posizione attigua e parallela, senza che la loro legittimità costituzionale sia stata, più di tanto, messa in discussione.

Da altro angolo visuale, la prospettiva, talvolta propugnata, di evoluzione del rimedio in una sorta di ricorso tout court giurisdizionale al Consiglio di Stato in unico grado o per saltum, sul modello processual-civilistico, pone seri problemi in relazione alla probabile violazione dell'art. 125, comma 2, Cost. che costituzionalizza i T.A.R. quali giudici amministrativi di prime cure; questo, ancorché la lettura data in passato dalla stessa Consulta potrebbe avvalorare l'inconsistenza di simili censure.

Non sembra condivisibile, invece, la tesi della violazione del divieto posto dall’art. 102, comma 2, Cost.. Il Consiglio di Stato, in sede consultiva, non pare integrare un “giudice” o un “giudice speciale” nell'accezione “propria” usata dal Costituente, né, a fortiori, un giudice “straordinario”.

La prospettata soppressione del rimedio potrebbe, invece, concretare la violazione dell'art. 100, comma 1, Cost. che pare conferire ad esso una copertura costituzionale, pur indiretta e mediata, considerando che quella in discussione è l’unica funzione amministrativo-giustiziale attribuita al Consiglio di Stato.

In definitiva, l’istituto, tradizionalmente espressione di poteri centrali, sembra in sintonia con il dettato costituzionale. Una sua integrale fuoriuscita dall'alveo dei ricorsi amministrativi o, peggio, la sua soppressione potrebbero indubbiamente ledere valori costituzionali e, comunque, avversare interessi della collettività meritevoli di considerazione... (segue)



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