E’ appena il caso di avvertire come la tematica, ovvero alcuni suoi aspetti, cui si intende approcciare in questa sede orbiti nell’area topica filosofico-dottrinale della responsabilità aquiliana della odierna pubblica Amministrazione e se si conviene con il Romagnosi che “le cognizioni dei fatti non sempre si acquistano per osservazione propria, ma il maggior numero di esse ci pervengono per osservazioni altrui, nel che si comprendono quelle delle generazioni passate, le quali costituiscono la maggior parte del patrimonio scientifico trasmessoci dai nostri maggiori”, non deve apparire inutile che si prendano le mosse dal rintracciare i condizionamenti storico-politici che hanno nel tempo assunto il ruolo di stabili fondamenta della impostazione originaria del problema e della conseguente approntata soluzione tecnico-giuridica, in ordine alla quale il mero tentativo di sollevare dubbi, ovvero di introdurre lievi correzioni appariva quasi ereticale sino ai tempi recentissimi, prima che la progressiva maturazione della cultura costituzionale ha finito per colorare diversamente il panorama dottrinale; per quanto l’aspetto in esame non risulti mai negletto, anzi storicamente e periodicamente riesaminato specie con l’avanzare contestuale della cultura dello Stato democratico. Infatti si deve valutare corretto, sul piano filosofico-giuridico, dedurre le conseguenze dal prefissato presupposto logico secondo cui la p.A., anzi i funzionari pubblici, concepiti come meri delegati della sovranità dello Stato, in fatto non potevano non eseguire la sua volontà, la quale per la sua intima essenza etica non poteva non essere considerata giusta, svolgendosi in concreto nella cura degli interessi sociali dell’intera collettività (statale); a fronte di ciò il privato, tenuto all’obbedienza in quanto (mero) suddito non poteva avanzare alcuna “naturale” pretesa poiché il suo (ipotetico) interesse era considerato fonte di quel presupposto interesse sociale quindi collettivo. Donde la ulteriore conseguenza che si sottoponeva all’osservazione dei cultori del diritto dell’epoca secondo cui “se per responsabilità giuridica si intende il riferimento dell’operato di un agente alla norma specifica del diritto costituito, se per avere responsabilità è necessario che siano distinti i due termini del confronto, cioè la volontà operante e la volontà fissa, che serve di paragone, se l’operare e il volere dello Stato, formalmente perfetto è per se stesso diritto, come è possibile trovare una responsabilità giuridica dello Stato, il cui operare non può essere valutato con quella stessa norma che il suo volere modifica e pone in essere “cosicché” come non può sorgere contraddizione fra legge e legge, così non può sussistere contrasto fra diritto costituito e volontà dello Stato; poiché questi due termini non sono che diverse manifestazioni di una sola volontà, cioè quella che è fondamento del principio dell’organizzazione sociale e”più oltre” così come ogni fatto psichico cosciente non può essere contraddittorio con se stesso” .E si perviene così a configurare il dipendente (o funzionario che sia) come un elemento strutturale organizzativo dell’organo amministrativo, poiché “la persona fisica in virtù della organizzazione… non entra in un rapporto di rappresentanza, ma in un rapporto molto più intimo che si risolve nei confronti dei terzi nella identificazione della persona fisica con l’ente… il mezzo materiale con cui l’ente manifesta la sua volontà”. Di qui la negazione assoluta che il dipendente-funzionario nell’esplicare la funzione prevista dalla legge non può per il dogma consacrato essere chiamato a rispondere dei danni ingiusti prodotti ai terzi (vale a dire ai privati-sudditi). Per non lasciare dubbi sulla strada ancora da percorrere va considerato che questa impostazione prende origine nel tempo in cui la sovranità si riteneva spettante al “sovrano” ed i relativi funzionari che venivano appunto delegati da questi, costituivano il braccio operativo dello stesso sovrano ed in tal caso potevasi valutare come tale teorica corrispondesse anche ad un certo grado di corrispondenza al reale, vale a dire quando gli esecutori “materiali” di siffatta volontà regia (sovrana) facevano parte, sul piano sociologico, della aristocrazia, per cui condannare al risarcimento un esecutore si sostanziava nella dichiarazione di responsabilità del re-sovrano in persona (per quanto si riscontra una interessante eccezione in proposito sancita da Ruggiero il normanno); una maggiore attenzione critica sia lecito appuntare sul fatto che l’orientamento in parola sia rimasto “imperituro” anche allorchè, nel successivo periodo in cui subentrò il dogma giuridico normativistico, il quale attribuiva la sovranità alla “legge”, il che lascia pensare che i presupposti logici siano stati ritenuti immutabili essendo mutato soltanto il titolare del potere sovrano, pur quanto, e non è possibile tacere, agli esecutori della legge erano progressivamente subentrati gli appartenenti alla classe borghese, i quali –è da ritenere- si accingevano a prestare la propria opera soprattutto al fine di percepire una retribuzione più o meno adeguata al proprio livello ed esigenza di vita (e quindi anche in termini sociologici non erano più legati alla persona del re-sovrano dal comune sentire, perlomeno non in tutti). Ad ogni buon conto è bene ricordare che in virtù di tale impostazione, pervenuta sino ai giorni nostri, il dipendente-funzionario è stato continuamente tutelato, in termini di irresponsabilità, dalla spessa coltre (ignoro se stellata) rappresentata dal (per così dire, interno) potere di “autotutela” con il quale correggere gli errori commessi nella esecuzione della legge (ancora nella prospettiva del principio acclarato che la legge non poteva cadere in contrasto con la propria volontà). E non sembra errare se si sostiene che un potere di tal fatta costituisca il supremo prodotto dell’impostazione istituzionale della sistematica giuridica fin qui riassunta , poiché in dottrina si è sempre sostenuto l’esistenza dell’autotutela fin dalla notte dei tempi, ancorchè non sia mai stato previsto e sancito normativamente, e si aggiunga che un semplice rapido accenno si trova soltanto nel testo unico c. e p. del 1915, peraltro relativo al potere di revoca delle delibere comunali e provinciali, al quale viene esplicitamente imposta la motivazione. Ai fini della presente premessa urge introdurre ulteriori precisazioni e dunque rammentare che l’intera tematica, oggetto dell’indagine, non risulta ricompresa esaurientemente nell’ambito della planimetria (a così dire) dei presupposti istituzionali fin qui ricordati, poiché –ed è importante notare – tale ricostruzione sistemica è rigorosamente prospettata con riferimento al principio di esclusione della responsabilità aquiliana nell’esercizio da parte della p.A. dei poteri “veri e propri” ritenuti pubblici, di quei poteri cioè che in seguito verranno ricostruiti sul piano tecnico-giuridico in termini di funzioni, infatti non va obliterato che dalla estesa area dell’attività esplicata dai soggetti pubblici viene separata dall’autorevole dottrina il settore dell’attività che la p.A. svolgeva in regime di diritto privato, considerato come estraneo, appunto, all’azione essenzialmente e naturalmente pubblica; in ordine all’esercizio di attività (o se si vuole di compiti) in regime di diritto privato si sosteneva che il soggetto pubblico agisse come un qualunque altro soggetto del vigente ordinamento giuridico e la relativa attività perciò sottostava alla disciplina codicistica. Trattavasi nella specie di quella attività contrattuale (negoziale) comunemente definita di gestione e/o strumentale con la quale la p.A. provvedeva a soddisfare esigenze strumentali necessarie alla propria interna organizzazione e funzionamento e non quindi diretta al soddisfacimento e/o perseguimento di scopi sociali, quindi pubblici (ad es. assumere la disponibilità di un immobile in cui installare un ufficio, acquistare l’arredo di un ufficio, ecc.); in altri termini si trattava di quella attività (giuridica), rientrante comunque nella generale competenza del soggetto di amministrazione ma che la legge non disciplinava con regime giuridico speciale. Orbene, se si fissa l’attenzione si scorge nitidamente come l’impostazione dottrinale teneva tale attività –come già rilevato altrove – rigidamente fuori dai sacri confini dell’azione ritenuta identitaria dell’Amministrazione pubblica e dal momento che si concordava che ad essa era da applicarsi la disciplina codicistica (si discuteva comunemente in termini di capacità, di legittimazione, ecc.) si era perciò disposti, senza alcuna perplessità di carattere ricostruttivo, a riconoscere una qualche responsabilità dell’agente-dipendente amministrativo e si accennava perciò alla illiceità dell’atto adottato, al dolo o colpa dell’agente conseguente al comportamento negoziale, ecc. In altri termini si perveniva al classico quadrato del cerchio, poiché in tale maniera si introduceva, anche sul piano sistematico, la tutela della posizione giuridica del privato, pretesa molto probabilmente in progressivo accreditamento sociale, e contemporaneamente si salvaguardava “l’infrangibile” dogma della delega di sovranità che continuava a “proteggere” il dipendente pubblico. Anzi se si è disposti ad approfondire quest’ultimo profilo si può agevolmente scorgere che anche esso poggiava su di una platea sistematica istituzionale qualora si consideri, specialmente nei primi tratti del lungo processo storico-evolutivo, che si aveva cura di distinguere dal concetto di sovranità quello del fisco (soltanto in seguito accorpato al primo), pertanto si desumeva che l’attività strumentale sarebbe dovuta essere studiata soltanto nella prospettiva, altrettanto bene avvertita, della garanzia della finanza pubblica (oggi diremmo contabilistica) e quindi si finiva per colorare detta attività come essenzialmente economico-finanziaria; con ciò l’ideologia del sistema era salva. A questo punto del discorso fin qui svolto si avverte impellente domandarsi se un siffatto quadro sistemico, perlomeno con riferimento ad alcuni suoi tratti, sia ancora da condividersi, soprattutto con riguardo alle conseguenze che si continuano a trarre in ordine alla attribuzione della responsabilità per danni, prodotti dall’azione amministrativa , a carico della p.A.-apparato e continuando a sostenere l’immunità del dipendente –agente esplicante la funzione (devesi ritenere ancora un dogma condiviso dappoichè non sono da riscontare recenti dissonanze), e ciò dopo la “consacrazione” del principio aureo di cui al comma 1 bis dell’art. 1 della Legge 241/90, che induce a constatare come anche l’azione amministrativa svolta con l’impiego delle norme private hanno finalmente ottenuto l’inclusione nei sacri confini identitari della complessiva azione amministrativa, come si ebbe occasione altrove di desumere e si avrà cura di tornare. Occorre in conseguenza indagare se l’accorpamento in una unica categoria identitaria di ogni azione svolta dalla p.A. non comporti che alcuni aspetti relativi ad una singola tipizzata azione non finisca per comunicarsi anche al restante campo di azione della p.A., con particolare riferimento al riconoscimento della responsabilità risarcitoria. Una tale prospettiva si accredita sul piano di ricostruzione sistemica non soltanto perché un tale angolo visuale consente di mettere a fuoco il progressivo grado di maturazione della cultura costituzionale e quindi in valore la prescrizione contenuta nell’art. 28 Cost., in ordine al quale si avverte la sensazione che inizialmente sia stato studiato alla luce dei paradigmi ricostruttivi preesistenti alla Carta e condivisi anche dopo il suo avvento, come se tale prescrizione non muovesse (anch’essa) secondo uno spirito (o se si vuole una ratio) capace di imprimere un avanzamento nel clima delle conquiste democratiche; e tale angolo visuale attualmente si impone all’osservazione giuridica in forza dell’avvenuta “introduzione” nella vita giuridica ordinamentale del principio di risarcimento per responsabilità aquiliana a causa della lesione (anche) degli interessi legittimi di competenza della giurisdizione amministrativa ben dopo il lungo periodo di glaciazione degli interessi speculativi in materia. Cosicché le due coordinate nuove costituiscono una spinta ineludibile a procedere, sul piano della conoscenza (soprattutto) logico-ricostruttiva, nell’indagine intrapresa se non altro come sana curiosità (essenzialmente) tecnico-giuridica. Invero non si ignorano alcune obiezioni eminentemente di tonalità pratica, peraltro rinvenibili anche in alcuni commenti di autorevoli studiosi, che fanno leva sull’opportunità di non creare eccessive preoccupazioni nei dipendenti-agenti che potrebbero tramutarsi in atteggiamenti defatigatori e con questi un rallentamento nella esplicazione dei propri compiti quando per converso si opera per una maggiore sollecitudine della generale azione a favore della collettività, ma in contrario avviso ci si permetta di notare come nel periodo attuale la nebulosità collusiva dell’azione svolta dai titolari dell’azione amministrativa appaia difficile diradare ed allora mi sia consentito di parafrasare l’espressione filosofica Kantiana e sostenere che è vero che si corre il rischio di squarciare il cielo stellato al di sopra degli operatori a favore però del consolidamento dell’idea morale, vale a dire dell’etica di servizio, dentro di loro. Ad ogni buon conto, per far ritorno nel solco tracciato in forza di considerazioni strettamente tecnico-giuridiche, va osservato come appaia di gran lunga, al fine di agevolare il raggiungimento della meta, che l’indagine si è posta, muovere dall’appurare come i termini generali del sistema istituzionale, sui quali si sostiene l’orientamento in materia poco o per niente scalfito, siano venuti a mutare per l’avvento e l’assestamento di differenti coordinate nel frattempo maturatesi, e quindi mettere a fuoco la complessiva consistenza concettuale ed il relativo nucleo giuridico della figura del cd. “danno ingiusto”, così come si è venuto da ultimo atteggiandosi nell’ambito della giurisdizione, indiscutibilmente creativa, che l’ha consacrata ormai come uno dei pilastri del vigente ordinamento generale dopo il periodo della glaciazione giurisprudenziale ; è vero, al fine di prevenire facili intuibili obiezioni, che il pilastro di cui è parola riguarda più specificamente la materia della responsabilità per fatto illecito e la corrispondente sanzione, però ove attentamente si rimediti, esso è in grado di rappresentare quell’indice di misurazione del fenomeno di progressiva tendenziale “avvicinamento” degli amministrati alla Amministrazione pubblica, detentrice del potere imperativo-autoritativo e quindi di quella tendenziale parità negli ultimi tempi da più parte auspicata e dal legislatore, sia pure ancora con timidezza filosofico-politica, in diverse occasioni favorita ed in concreto disposta... (segue)
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