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NUMERO 1 - 03/01/2018

 Il diritto del lavoro nell'ordinamento europeo

Il presente contributo si pone l’obiettivo di analizzare le ragioni e le modalità per e con cui il diritto del lavoro nazionale degli Stati membri (e, in particolare, di quelli economicamente più deboli) è stato fortemente condizionato, nei suoi valori fondamentali, dalla predominanza delle logiche competitive ed efficientiste propugnate dalle istituzioni dell’Unione. Queste invero, come l’analisi della relativa prassi metterà in luce, ne hanno fortemente influenzato le riforme in materia lavoristica, orientandone i contenuti, in particolare attraverso forme di pressione politica. A questo riguardo si pensi, su tutti, alla concessione di assistenza finanziaria condizionata all’adozione di misure interne determinate in sede europea; tale condizionalità ha peraltro acuito la propria intensità proprio in seguito all’instaurarsi della c.d. governance economica europea, scaturita in reazione alla crisi economico finanziaria globale. Da un’analisi delle recenti riforme nazionali adottate in ambito lavoristico (ci si riferirà in seguito, più nel dettaglio, a quelle di Spagna, Italia e Germania) sembra infatti emergere univocamente come il diritto del lavoro sia stata considerato, dalle istituzioni unionali, quale vero e proprio strumento di politica economica, attraverso cui poter rilanciare la competitività di uno Stato economicamente debole. Trattasi di un’evidente considerazione strumentale di tale materia che, perdendo così ogni carica assiologica, viene asservito alle trionfanti ragioni dell’economia – secondo le teorie proprie dell’ordoliberismo – e privato del ben diverso valore, ovvero quello antropocentrico e di valorizzazione/tutela del lavoratore che appartiene al nostro patrimonio costituzionale. Costituiscono declinazione di quanto affermato, con riferimento all’ordinamento italiano, le disposizioni del c.d. Jobs Act le quali prevedono, in luogo della tutela reintegratoria per illegittimo licenziamento motivato da ragioni economiche, un’indennità fissa e proporzionata all’anzianità di servizio. Invero, come recentemente affermato dal Tribunale di Roma, tale normativa sembra porsi in contrasto con gli articoli 4 e 35 della Costituzione, in quanto, finendo con l’agevolare il datore nella valutazione della figura del lavoratore in termini di costi e benefici, attribuisce al diritto del lavoro non certo un valore fondamentale, quanto un mero controvalore monetario standard, irrisorio e, comunque, non proporzionato alla gravità del comportamento illegittimo di questi. Pertanto, secondo la suesposta logica, la deflazione salariale, la flessibilità del lavoratore e del lavoro, la promozione della contrattazione collettiva decentrata e, da ultimo, un affievolimento generale della tutela accordata al prestatore in caso di licenziamento illegittimo sono divenute (e sembrano tutt’ora essere) le misure europee elaborate – quando non imposte (si pensi ai noti memoranda of understanding) –  per ridurre gli squilibri macroeconomici tra Stati in costante surplus e Paesi in costante deficit commerciale, i c.d. GIPSI, secondo un approccio, proprio dell’analisi economica del diritto, tale per cui la legislazione di un determinato settore deve essere valutata secondo logiche consequenzialiste ed in relazione agli esiti economici da questa determinati. In sintesi, le istituzioni europee hanno spinto gli Stati membri all’adozione di un modello di legislazione lavoristica “plasmato” secondo i canoni dell’efficienza economica e, pertanto, di una “struttura giuridica” servente rispetto alle logiche di un mercato competitivo interstatale... (segue)



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