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Che il rilancio delle aree interne del Paese possa e debba passare per la rivitalizzazione di borghi e centri storici minori è un sillogismo che sconta un problema di fondo, vale a dire la difficile elaborazione di politiche pubbliche capaci di coniugare le legittime aspettative di sviluppo socio-economico del territorio, sfruttandone i vantaggi competitivi naturali e secondari, con la salvaguardia della propria identità storico-culturale. L’estrema eterogeneità delle situazioni in cui versano i centri storici minori non agevola certo tale compito. Secondo la distinzione proposta da Pier Luigi Cervellati i c.d. “centri storici minori” si possono ricondurre per lo meno a tre categorie, a loro volta suddivisibili in diverse articolazioni o situazioni che li fanno in parte differire pur restando nella medesima schematica suddivisione: gli insediamenti storici “incapsulati” nell’espansione edilizia e nell’agricoltura industrializzata; gli insediamenti storici “abbandonati” per ragioni naturali, spesso catastrofiche, o per la realizzazione di nuovi insediamenti e gli insediamenti storici “trasfigurati” dal recupero omologante del turismo. Si tratta di una distinzione, una delle tante possibili ovviamente, utile almeno in prima battuta ad isolare alcuni dei problemi che caratterizzano i “centri storici minori” – deterioramento del patrimonio abitativo, degrado ed incuria del patrimonio storico-artistico, impoverimento del tessuto produttivo, isolamento e spopolamento - e a comprendere come la risoluzione degli stessi non possa che passare per un’adeguata valutazione e ponderazione della pluralità e dell’eterogeneità degli interessi pubblici, alcuni generali (governo del territorio, sviluppo economico) altri differenziati (interesse culturale, paesaggistico, ambientale, tutela del suolo), che gravitano sul territorio. Interessi affidati alla cura di amministrazioni diverse che operano con strumenti diversi - tanto generali, di pianificazione o programmazione, che individuali, sia ablatori che concessori, unilaterali e sempre più spesso consensuali - che definiscono, non senza conflitti e possibili sovrapposizioni, le politiche di governo di un territorio che in molti casi è in grado di garantire ai residenti soltanto una limitata accessibilità ai servizi essenziali. L’analisi condotta dall’Agenzia per la coesione territoriale restituisce infatti l’immagine di un territorio nazionale caratterizzato da una rete di comuni o aggregazioni di comuni (c.d. centri di offerta di servizi) attorno ai quali gravitano aree caratterizzate da diversi livelli di perifericità spaziale, le c.d. “aree interne”, che pur essendo un territorio profondamente diversificato, esito delle dinamiche dei vari e differenziati sistemi naturali e dei peculiari e secolari processi di antropizzazione, presentano alcuni tratti comuni come la significativa distanza (remoteness) dai principali centri di offerta di servizi essenziali (istruzione, salute e mobilità) e la presenza di importanti risorse ambientali (idriche, sistemi agricoli, foreste, paesaggi naturali e umani) e culturali (beni archeologici, insediamenti storici, abbazie, piccoli musei, centri di mestiere). Il rilancio dei centri, spesso di ridotte o ridottissime dimensioni, che rientrano nelle aree interne, se si vogliono scongiurare fenomeni di abbandono e desertificazione, si declina quindi in termini di accessibilità e mobilità urbana, di adeguatezza e sufficienza delle dotazioni infrastrutturali (parcheggi, parchi e aree verdi, ecc.) e di servizi, tanto pubblici che privati (compresi quelli culturali e di intrattenimento), in sintonia con la valorizzazione dell’“immateriale valore identitario” che li contraddistingue, che è fatto di tipicità tradizionali locali (enogastronomiche, agro-alimentari e artigianali) come di tradizioni culturali (festival, rassegne, sagre, manifestazioni culturali laiche e religiose). In questa prospettiva l’istituzione con la legge 6 ottobre 2017, n. 158, recante «Misure per il sostegno e la valorizzazione dei piccoli comuni, nonché disposizioni per la riqualificazione e il recupero dei centri storici dei medesimi comuni», c.d. legge “salva borghi”, di un “Fondo per lo sviluppo strutturale, economico e sociale dei piccoli comuni” destinato al “finanziamento di investimenti diretti alla tutela dell’ambiente e dei beni culturali, alla mitigazione del rischio idrogeologico, alla salvaguardia e alla riqualificazione urbana dei centri storici, alla messa in sicurezza delle infrastrutture stradali e degli istituti scolastici nonché alla promozione dello sviluppo economico e sociale e all’insediamento di nuove attività produttive” (art. 3, co. 1)pare certamente muoversi nella giusta direzione. Entro centoventi giorni dall’entrata in vigore della legge con decreto del Ministero dell’interno, di concerto con il Ministero delle infrastrutture e dei trasporti, con il Ministro del lavoro e delle politiche sociale e con il Ministro dei beni e delle attività culturale e del turismo, sentito l’ISTAT ed acquisito il parere delle competenti commissioni parlamentari, saranno definiti i parametri per la determinazione delle tipologie dei comuni che possono accedere ai finanziamenti (art. 1, co, 4)... (segue)
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