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NUMERO 5 - 28/02/2018

 'Concorrenza fiscale dannosa' e tax rulings

Chiunque osservi il processo di integrazione europea in una prospettiva storica e politica potrà notare come due siano stati i principali fattori che ne hanno determinato gli sviluppi più significativi, fattori a volte isolati, altre volte in combinazione tra loro: (i) una specifica configurazione (o un particolare mutamento) dello scenario politico internazionale; (ii) l’emersione, in sede di implementazione delle politiche di integrazione, di problemi nuovi e (soprattutto) inaspettati. Sotto il primo profilo, non si può dimenticare come la stessa genesi delle prime Comunità europee (CECA, CEE, Euratom) dipese dai delicati rapporti tra USA e URSS del secondo dopoguerra (Guerra fredda). E’ infatti convinzione diffusa tra gli storici che ad incentivare e sostenere, inizialmente, il processo di integrazione europea fossero proprio gli Stati Uniti, al fine specifico di evitare una probabile “bolscevizzazione” dell’Europa (ed in primis della Germania), attese le condizioni di estrema povertà cui allora versava il Vecchio continente. Da qui l’interventismo dell’allora presidente Truman (“dottrina Truman”), teso a legare gli Stati europei al proprio modello economico e culturale (attraverso il “piano Marshall”) ed a sottoporli al proprio “cappello militare” (con la stipula del Patto Atlantico e con l’istituzione della NATO). Analogamente, l’allargamento dell’Unione agli Stati dell’ex-est europeo, avvenuto a partire dal 2000, è apparso legato soprattutto alla necessità di assegnare all’Europa un ruolo geo-politico “paritario”, con USA e Russia, sulla scena internazionale e nell’ambito della stessa NATO. Così come, alcuni fondamentali passi in avanti nel processo di integrazione furono nient’altro che risposta alle crisi di carattere globale: si pensi, ad esempio, alla crisi economica legata allo shock petrolifero di fine 1973, che nel giro di pochi anni spinse alla creazione dello SME, o alla cd. tempesta monetaria del settembre 1992, che - mostrando i rischi connessi alla asimmetria dello SME (a beneficio del marco tedesco) - pose le basi per la creazione dell’Euro. Ma si consideri altresì la recentissima spinta verso l’integrazione nel campo della sicurezza e della difesa militare, attraverso la creazione e lo sviluppo in area UE di un Fondo comune, da poco sancita nel Consiglio europeo del 22 e 23 giugno 2017; integrazione in netta contro-tendenza rispetto alla storica “recalcitranza” dei paesi membri ad “unire le proprie forze” militari, e da molti ritenuta “risposta” alle contingenti richieste dell’amministrazione Trump di una maggior “partecipazione” economica alle spese della NATO da parte di molti dei suoi membri. Ben si comprende - quindi - quanto, nel 2010, due noti politologi affermano a conclusione di una ampia ed approfondita analisi della storia e dell’evoluzione dei sistemi di governo, delle politiche e delle istituzioni dell’Unione europea: “[s]e guardiamo alle ragioni per le quali nel dopoguerra è iniziata la prima fase del processo integrativo europeo e negli anni ottanta si è passati a una seconda fase, dobbiamo riconoscere che queste risiedono in sfide provenienti dall’ambiente esterno: vale a dire i mutamenti economici e politici del mondo alla fine della seconda guerra mondiale e i mutamenti economici e politici del mondo venticinque anni dopo. Sulla base di questa lezione del passato, si può ipotizzare che l’Europa entrerà in una terza fase del processo integrativo solo quando l’ambiente esterno porrà nuove sfide e problemi e gli europei ne diverranno consapevoli [corsivo aggiunto, n.d.a.]”. Sotto il secondo profilo, l’emersione di problemi nuovi ed inaspettati è alla base dell’impostazione cd. funzionalistica cui si fonda storicamente il processo di integrazione europea: l’idea (o forse la speranza) che la creazione di una politica comune in un settore, oltre a generare gli effetti di integrazione in esso previsti ed implicati nel trasferimento di competenza, avrebbe determinato anche “effetti imprevisti” (unintended consequencies), ovverosia nuovi problemi comuni che avrebbero spinto ad ulteriori interventi comuni (cd. effetto spill-over) nel senso o di un ampliamento dei settori di integrazione (ambito dell’autorità) o nel senso del trasferimento all’ente sovranazionale di una fetta maggiore di autorità nei medesimi settori (livello di autorità). Si immaginava quindi un sistema quindi teoricamente capace ex se di auto-espandersi (self-expanding) e di “ramificarsi”. Certamente, anche tale impostazione è stata oggetto di un profondo ripensamento negli ultimi anni: il funzionalismo cd. unitario e simmetrico, quello delle origini e di ispirazione monnetiana (adatto ad un contesto ristretto ed omogeneo di Stati), con l’allargamento dell’Unione verso l’est, ha presto mostrato i suoi limiti sul versante economico interno, internazionale e su quello identitario; di esso (funzionalismo) non se ne è tuttavia mai abbandonata la logica di fondo, preferendo semplicemente ri-declinarlo - a partire dal Trattato di Lisbona (approvato nel 2007, in vigore dal 2009) - in termini cd. flessibili ed asimmetrici, il tutto nella speranza di uno spill-over non più - o non solo - settoriale, ma (anche) geografico, con i paesi più “veloci” a far da traino a quelli più “lenti”. Ebbene, sembra proprio che - nel contesto della fiscalità internazionale e nella prospettiva dello sviluppo dell’Unione europea - il nuovo scenario conseguente alla diffusione della cd. economia digitale abbia sollecitato risposte innovative capaci - si dirà - di conseguenze “impreviste” nei rapporti tra Stati e Unione. Si osservi quanto segue… (segue)



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