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NUMERO 5 - 28/02/2018

 Fuzzy borders dell'UE e principio di leale collaborazione

Ricostruire le linee attraverso le quali si sviluppa il principio di leale collaborazione nei rapporti tra Unione europea e spazi esterni alla stessa può risultare utile per comprendere alcuni sviluppi recenti del diritto sovranazionale. Come noto, nelle sue relazioni esterne, l’Unione europea pone, alla base della conclusione di accordi economici, di associazione o di altri accordi specifici, il rispetto di determinati valori e principi, effettuando così un’attività di europeizzazione. Il tutto avviene prevalentemente tramite l’operato di istituzioni che agiscono sulla base del mandato conferito dagli Stati aderenti. In tal modo, si determina la formazione di un insieme di regole e principi condivisi, che vengono diffusi anche all’esterno dei confini dell’Unione. Si tratta, in definitiva, di un processo di “europeizzazione” in senso ampio, che coinvolge tanto l’aspetto delle trasformazioni verticali e orizzontali interne allo “spazio UE” quanto i mutamenti interni agli ordinamenti statali esterni all’Unione e le relazioni tra i primi e quest’ultima. In tal senso, l’Unione assume un ruolo di “attore globale”, costituendo un modello d’integrazione per altre regioni, diventando un operatore di mercato che promuove e difende i propri interessi economici, diffondendo valori e principi europei, promuovendo la stabilizzazione negli spazi esterni (mettendo così, al contempo, al riparo la stabilità interna all’Unione) e diventando, in definitiva, punto di riferimento per diversi Paesi attraverso l’impiego di incentivi che dovrebbero portare alla membership europea. Tale ruolo di attore globale dell’Unione è stato ora, per così dire, “istituzionalizzato” dall’art. 47 TUE post-Lisbona, che riconosce all’Unione personalità giuridica e che, secondo quanto stabilito negli artt. 3 (5) e 21 TUE, nelle sue azioni esterne promuove principi e valori condivisi all’interno dell’Unione stessa. Dalla diversificazione delle attività svolte dall’Unione in tale veste, però, deriva anche una diversità di relazioni con i vari spazi geografici, assumendo a sua volta il principio di leale collaborazione diverse declinazioni. Una clausola di leale collaborazione tra Unione europea (allora Comunità) e ordinamenti esterni alla stessa fu introdotta, per la prima volta, nell’Accordo di associazione, concluso con la Grecia; la clausola trovò, poi, ulteriore specificazione nell’Accordo di associazione concluso con la Turchia nel 1963. Da allora, la previsione di cui all’art. 7 dell’Accordo da ultimo menzionato, la quale stabilisce che «Le Parti Contraenti adottano tutte le misure di carattere generale o particolare atte ad assicurare l’esecuzione degli obblighi che discendono dall’Accordo. Esse si astengono da qualsiasi misura che possa compromettere la realizzazione degli scopi dell’Accordo», prevedendo tanto obblighi di azione quanto di astensione, ha costituito una clausola standard per tutti gli Accordi successivi. Fino alla firma dell’Atto unico europeo del 1987, la conclusione di tali Accordi di associazione costituiva l’unico potere estero dell’Unione, venendo declinata, la clausola sopra menzionata, in maniera simile al principio di buona fede e costituendo, pertanto, quello del pacta sunt servanda, un obbligo generico atto a indirizzare le modalità d’interazione a seguito della stipula dei Trattati. Con la progressiva integrazione dell’Unione, si è avuto un ampliamento dei poteri esercitati dalle istituzioni europee anche in riferimento alla conclusione di Accordi con Paesi terzi. L’attuale art. 212 TFUE riconduce la conclusione degli stessi nel quadro delle azioni esterne all’Unione, delineando un ambito di competenze proprie e condivise, il cui esercizio, tra l’altro, non sempre è pacifico. A tali relazioni esterne, poi, si aggiunge anche la Politica Europea di Vicinato (PEV), che secondo quanto stabilito dall’art. 8 TUE, riguarda la categoria di “Paesi limitrofi” con i quali l’Unione intrattiene «relazioni privilegiate», e che proprio in quanto richiamati all’interno del TUE e al di fuori dal TFUE, rappresenta una nuova categoria di Accordi non rientranti nelle relazioni esterne all’Unione. Con riferimento a queste ultime relazioni, invece, l’attuale art. 217 TUE (ex art. 310 TCE) riprende la formulazione prevista dall’art. 7 degli Accordi di associazione con la Turchia sopra richiamata, stabilendo che «L’Unione può concludere con uno o più Paesi terzi o organizzazioni internazionali accordi che istituiscono un’associazione caratterizzata da diritti ed obblighi reciproci, da azioni in comune e da procedure particolari». Nonostante tale richiamo congiunto a tutta la categoria di Accordi di associazione, per i quali i diritti e gli obblighi reciproci rimandano ancora una volta al più generico principio pacta sunt servanda, nelle varie relazioni esterne si disegnano rapporti diversi, derivandone, di conseguenza, diritti e obblighi differentemente graduabili. Partendo da tale diversità di relazioni, Craig e De Burca suddividono gli Accordi di associazione in due macro-gruppi: quelli internazionali e i c.d “Accordi Europei”. Rientrano nella prima categoria gli Accordi di associazione con aree geograficamente distanti (Paesi caraibici, Paesi del Pacifico e Africa), gli Accordi di associazione con Repubbliche appartenute all’ex URSS (attuali componenti della CSI), gli accordi di cooperazione inter-regionale (America latina, Paesi Arabi, Sud-Est asiatico). La tipologia degli “Accordi Europei”, invece, riguarda gli Accordi di associazione conclusi con i Paesi dell’Europa centro-orientale e con quelli dei Balcani occidentali. Gli ultimi si differenziano dalla prima categoria in quanto l’avvio degli stessi muove dalla prospettiva che gli Stati interessati dalla conclusione di tali Accordi probabilmente entreranno a far parte dell’Unione. Tale prospettiva di adesione, al contempo, differenzia gli “Accordi Europei” anche rispetto alla categoria di “Paesi limitrofi” che si caratterizzano proprio per l’esclusione della prospettiva di adesione all’Unione. Con riferimento alle relazioni regolamentate tramite gli “Accordi Europei”, la prospettiva di adesione all’Unione è emersa chiaramente nelle conclusioni del Consiglio europeo riunito a Feira nel 2000, dove si è affermato che tutti gli Stati partecipanti al Processo di stabilizzazione e associazione (PSA) sono «potenziali candidati all’adesione all’Unione europea», specificando che «l’obiettivo resta quello della massima integrazione possibile dei Paesi della regione nel contesto politico ed economico dell’Europa». Se si guarda dalla prospettiva dei Paesi firmatari degli “Accordi Europei”, invece, la proiezione all’interno dello spazio comunitario si evince, oltre che dagli Accordi di associazione, anche dalla “clausola europea”, inserita all’interno dei testi costituzionali, individuabile tanto nei richiami ai valori e ai principi dell’Unione nei Preamboli, quanto in espressi riferimenti ai procedimenti di adesione all’Unione europea, oppure alla possibilità d’uscita dalla stessa. Adottando uno sguardo d’insieme, tutti i rapporti sopra menzionati rappresentano un sistema policentrico delle relazioni esterne dell’Unione, sviluppandosi, queste ultime, in aree multiple, che però tutte, anche se in modalità differenziate, rimangono connesse con il fenomeno della governance economica dell’Unione e, pertanto, con le politiche di regionalizzazione. Mediante le stesse, sulla scia dei spill over effects del funzionalismo e neofunzionalismo, l’Unione innesca processi di (inter)dipendenza economica, effettuando al contempo una generale “europeizzazione” condizionando la conclusione degli accordi economici e lo stanziamento di aiuti finanziari al rispetto di determinati requisiti. Tuttavia, se negli Accordi internazionali tale attività di europeizzazione si esaurisce prevalentemente nell’inserimento della clausola “elemento essenziale”, ossia nel rispetto dei diritti umani e della democrazia, diversamente, per gli “Accordi Europei”, operano ulteriori e più specifici obblighi. Questi, così come precisati nei c.d. Criteri di Copenaghen (ora richiamati dall’art. 49 TUE che rinvia anche al rispetto dei principi e valori dell’art. 2 TUE), prevedono che, per aderire all’UE, uno Stato deve soddisfare tre requisiti fondamentali: quello politico, quello economico e quello dell’acquis comunitario. Quanto ora affermato, ancora una volta, conferma la differenziazione tra l’area interessata dagli “Accordi Europei” rispetto alle altre zone geografiche soggette ad europeizzazione, disegnando dei fuzzy borders di uno spazio esterno all’Unione ma al contempo diversamente interno alla stessa. Spazio, tra l’altro, che in quanto soggetto all’adempimento di obblighi specifici di risultato, periodicamente scrutinati dalle istituzioni europee, delinea delle modalità particolari dell’operatività del principio della leale collaborazione, che si allontana nettamente dal modus operandi del pacta sunt servanda, e pertanto da quel generico obbligo di buona fede che, invece, indirizza i rapporti negli Accordi internazionali. D’altro canto, l’unico richiamo esplicito alla leale collaborazione tra Unione e tale spazio ibrido è contenuto all’interno di strumenti finanziari riconducibili ai meccanismi della multilevel governance europea, specificando che «gli Stati beneficiari, a differenza degli Stati Membri, non sono obbligati al principio di leale collaborazione ex art. 10 TEC, oppure dall’acquis che deriva dallo stesso». In tal senso, nello spazio ibrido come sopra delineato, la leale collaborazione viene graduata in maniera differente, sia nelle declinazioni che essa assume entro i confini dell’UE sia al di fuori di tali confini, ove opera il principio «pacta sunt servanda». Tra i due processi che hanno maggiormente influenzato la progressiva integrazione europea, ossia la governance multilivello e il multilevel constitutionalism, le interazioni che si sviluppano all’interno dei fuzzy borders non presentano particolari peculiarità con riferimento a quest’ultimo. Diversamente, più problematico appare l’inserimento dello spazio ibrido nei meccanismi della multilevel governance dell’Unione, che, pur svolgendosi in modo analogo all’evoluzione dei rapporti all’interno dei confini dell’UE, produce degli effetti quasi patologici. Il già accidentato percorso della leale collaborazione nei fuzzy borders si intreccia in maniera indissolubile con l’impatto dell’entità sovranazionale su quel nucleo di sovranità costituita dalle articolazioni territoriali del potere politico statale e che, in ambito UE, rientra nei c.d. “controlimiti europeizzati”. Per la comprensione di tali torsioni è utile richiamare, anche se in estrema sintesi, i meccanismi operanti all’interno dell’Unione europea... (segue) 



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