Da tempo la letteratura che si interessa degli effetti politici, economici e sociali della globalizzazione ha maturato consapevolezza della relazione tra i processi d’integrazione politica sovranazionale che hanno dato forma nel secondo dopoguerra ad esperienze quali la Comunità economica europea, il Mercosur, la Nafta (fino ad arrivare ai più recenti progetti di integrazione transatlalantica (TTIP, Transatlantic Trade and Investment Partnership) e transpacifica (TPP, Trans-Pacific Partnership) e l’inarrestabile liberalizzazione delle economie che ne è seguita. Nessuno, tuttavia, aveva compreso a fondo tale legame con tanto anticipo e tanta lucidità quanto il padre spirituale del neoliberismo austro-americano, Friedrich von Hayek, nel saggio The Economic Conditions of Interstate Federalism, pubblicato in concomitanza con l’inizio della seconda guerra mondiale. Il saggio, che trae spunto da un interrogativo circa le condizioni economiche necessarie alla creazione di un ordine internazionale stabilmente improntato alla pace, evidenzia le ragioni per le quali la creazione di una “federazione di Stati” evolverebbe inesorabilmente in direzione di una liberalizzazione dei mercati con l’eliminazione di ogni barriera tariffaria e normativa. In primo luogo, l’esistenza di un “sistema economico condiviso”, nel quale sia garantita in una qualche misura la libera circolazione dei fattori produttivi – quello che, ‘profeticamente’, Hayek definisce un “unione dotata di un single market” – ostacolerebbe fortemente la portata e la capacità di intervento pubblico degli Stati nazionali. Qualsiasi misura normativa interna restrittiva di tali libertà di circolazione contrasterebbe con il diritto ‘federale’ e verrebbe osteggiata dagli altri Stati membri. Fino a pervenire al caso estremo per il quale uno Stato non riuscirebbe a realizzare neppure “limitazioni normative sul lavoro minorile o sulla regolamentazione dell’orario di lavoro”. In secondo luogo, gli interventi di regolazione del mercato non potrebbero neppure essere trasferiti tanto facilmente nella dimensione sovranazionale. La ragione di ciò risiede nel fatto che all’interno di una unione di Stati la diversità di interessi è maggiore di quella presente all’interno di un singolo Stato ed è più debole il sentimento di appartenenza ad un’identità collettiva in nome della quale legittimare gli interventi pubblici di redistribuzione. “È verosimile – si chiedeva polemicamente Hayek – che un contadino francese sia disposto a pagare di più il fertilizzante per aiutare l’industria britannica? L’operaio svedese sarà pronto a pagare di più le arance per sostenere il coltivatore californiano [o quello siciliano]? O ancora l’impiegato della City di Londra sarà disposto a pagare di più le proprie scarpe o la propria bicicletta per aiutare l’operaio belga o americano?”. In poche parole, Hayek raffigurava l’integrazione sovranazionale tra Stati come un ideale dispositivo di governo in grado di consolidare globalmente un modello economico fortemente concorrenziale, che impedisse qualsiasi tentativo di pianificazione pubblica degli Stati nazionali. A distanza di sessanta anni dall’inizio del processo d’integrazione europea è difficile non riconoscere che le previsioni di Hayek sembrano essersi, per certi versi, materializzate. Il vertiginoso allargamento dell’Unione a Est che ha alimentato una concorrenza ‘fratricida’ tra Europa orientale e Europa occidentale, prevalentemente incentrata sulla svalutazione salariale e sociale. Una svalutazione non sempre ostacolata, ma anzi a volte incoraggiata dalla giurisprudenza della Corte di Giustizia che ha sancito nel noto filone Laval-Viking il primato costituzionale delle libertà economiche di circolazione sui diritti sociali individuali e collettivi. Questo saggio intende ricostruire il rapporto dialettico tra le le istituzioni dell’Unione europea e l’ordine neoliberale e concorrenziale, proponendo una ricostruzione critica del processo d’integrazione europea in tre distinti momenti storici. Nella prima fase, i “Trenta gloriosi”, ovvero i trent’anni successivi alla seconda guerra mondiale, la vocazione ordoliberale ad elevare la concorrenza a motore portante della costituzione economica comunitaria ha trovato un solido argine e freno nella filosofia interventista-keynesiana: il frutto prezioso del costituzionalismo democratico-sociale dell’Europa continentale (anche in territorio tedesco). Nella seconda fase, che si apre simbolicamente nei primi anni Settanta con il collasso dell’ordine economico-monetario di Bretton Woods, la razionalità neoliberale si è incarnata in dispositivi coattivi di governance economica mondiale. Nel quadro di quello che ha presto assunto la denominazione di “Washington Consensus”, l’austerità fiscale e le misure di deregolamentazione e liberalizzazione dei mercati (le c.d. “riforme strutturali”) sono diventate le precondizioni insuperabili per poter accedere al sostegno finanziario del Fondo monetario internazionale e della Banca Mondiale... (segue)
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