La questione della necessità o meno dell’intervento chirurgico di modificazione dei caratteri sessuali primari per ottenere la rettificazione anagrafica di sesso è di recente tornata all’attenzione della Corte costituzionale benché su di essa, non più di un paio d’anni fa, sembrava essere già stata scritta una parola “definitiva” in ordine all’interpretazione (costituzionalmente orientata) da dare all’art. 1, comma 1, della legge 14 aprile 1982, n. 164 (recante “Norme in materia di rettificazione di attribuzione di sesso”), a tenore del quale «La rettificazione si fa in forza di sentenza del tribunale passata in giudicato che attribuisca ad una persona sesso diverso da quello enunciato nell’atto di nascita a seguito di intervenute modificazioni dei suoi caratteri sessuali». Sia la Corte di cassazione (con sentenza 20 luglio 2015, n. 15138) che la stessa Corte costituzionale (con sentenza 5 novembre 2015, n. 221), dando risalto ad un precedente orientamento minoritario di alcune Corti di merito nazionali, avevano escluso, anche sulla scorta di una quasi coeva pronuncia della Corte EDU in argomento, che la suddetta disposizione, in combinato disposto con l’art. 3 della stessa legge, come “trasfuso” nel comma 4 dell’art. 31 del d.lgs. 1 settembre 2011, n. 150 – a tenore del quale «Quando risulta necessario un adeguamento dei caratteri sessuali da realizzare mediante trattamento medico-chirurgico, il tribunale lo autorizza con sentenza passata in giudicato» – potesse interpretarsi nel senso di imporre al richiedente rettificazione del sesso anagrafico un intervento chirurgico per la modificazione dei propri caratteri sessuali primari. Ciononostante, taluni (irrisolti) equivoci sottesi alla delicata problematica hanno spinto alcuni giudici a ricorrere nuovamente alla Consulta al fine di ottenere una decisione che illuminasse un contesto ermeneutico conforme a Costituzione non ancora sufficientemente chiaro se è vero, come è vero, che le censure sollevate dalle ordinanze di rinvio hanno assunto un “verso” tra loro radicalmente opposto. Le questioni di legittimità costituzionale cui si fa riferimento sono state promosse dal Tribunale di Trento con due diverse ordinanze (8 e 28 aprile 2015), poi riunite nel giudizio costituzionale, e dal Tribunale di Avezzano (12 gennaio 2017) e sono state decise in modo differente. Quanto alle prime, sollevate in un momento di poco anteriore alle succitate pronunce delle supreme magistrature – sì che i dubbi sollevati dal giudice remittente, probabilmente, non avevano ancora avuto modo di essere adeguatamente sopiti all’atto di redigere e trasmettere le ordinanze di sospensione dei giudizi – la Consulta, così come nell’analoga occasione del 2015, non ha ritenuto di dichiararle (manifestamente) inammissibili, benché gli elementi per procedere in tal senso non mancassero, e ha scelto di (ri)esaminare il merito della vicenda con la pronuncia n. 180 del 2017 al fine di ribadire la stessa posizione presa due anni prima con il medesimo tipo di sentenza, giustappunto una interpretativa di rigetto. Quanto alla seconda, di tutt’altro “verso” rispetto alle prime, come si dirà, il Giudice delle leggi ha optato per un’ordinanza, la n. 185, di manifesta infondatezza non rinvenendovi argomenti che potessero mettere in discussione i cardini dell’interpretazione indubbiata. È opportuno, allora, esaminare lo stato dell’arte della controversa tematica al fine di provare a ricostruire il mutato scenario normativo in tema di transessualismo, che ha posto, e continua a porre, questioni anche ulteriori (presupposte e conseguenziali, verrebbe da dire) rispetto a quella della necessità o meno dell’intervento chirurgico di modificazione dei caratteri sessuali primari per ottenere la rettificazione anagrafica di sesso... (segue)
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