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Riflettevo ultimamente sulle giuste costrizioni che impediscono (o dovrebbero impedire: sono note prassi discordanti) ad un giudice costituzionale in carica di pronunciarsi pubblicamente su questioni giuridiche ed istituzionali cruciali e discusse nell’attualità. E pensavo, per contro, con rimpianto ed un poco d’invidia, alla condizione dello studioso, che di ogni questione può scrivere in libertà, con ampiezza di giudizio. Mi capitava di fare questi pensieri in relazione alla meritoria iniziativa, assunta da un deputato, di chiamare vari costituzionalisti a riflettere sul destino del libero mandato parlamentare, al cospetto di regole statutarie deliberate da un gruppo parlamentare, che parrebbero porsi in una qualche tensione con quel principio. Mi sarebbe piaciuto partecipare all’iniziativa (avevo ricevuto l’invito), ma non potevo farlo, per ovvie ragioni. Così, ancora un poco recriminando sui vincoli derivanti dalla mia attuale condizione, mi sono dedicato alla lettura degli scritti presentati dagli studiosi che a quell’iniziativa hanno aderito, altrettanto meritoriamente pubblicati da Federalismi. Al tema del libero mandato sono del resto affezionato, culturalmente e personalmente, anche perché mi ricorda anni lontani, quelli della mia giovinezza (sottolineo la parola, per le ragioni che dirò), quando si studiava e basta, e non c’era altro cui pensare, e si credeva che tutto ruotasse intorno alle nostre ricerche, e si era così ingenui da credere che le sorti del mondo dipendessero da queste. Beata ingenuità della giovinezza (ri-sottolineo la parola)…Non ho potuto tuttavia cullarmi a lungo in dolci ricordi, perché mi sono imbattuto, sempre nell’antologia di Federalismi, nello scritto di Gianluca Conti (Sfera pubblica e sfera privata della rappresentanza. La giustiziabilità dell’art. 67 Cost. nella sua attuazione da parte dello statuto di un gruppo parlamentare, in Federalismi, n. 13/2018). L’Autore mi dedica alcune righe davvero sorprendenti, leggendo le quali mi sono definitivamente, e bruscamente, risvegliato da nostalgie melanconiche. Il Collega ricorda e cita (p. 3 dello scritto citato, anche alle note 3 e 4) un mio scrittarello del 2014, intitolato “La seconda giovinezza dell’articolo 67 della Costituzione” (credo peraltro che ne abbia letto solo il titolo, come testimonia un’ulteriore citazione - nota 12 di p. 6 - nella quale sostiene che mi sarei occupato, in quell’articoletto, di Burke, ciò che invece non è). In tale scritto, osservavo il recente ricorso della Corte costituzionale al parametro di cui all’art. 67 Cost. per risolvere questioni di legittimità costituzionale: cosa invero inusuale, che mi aveva indotto a ragionare di una sua “seconda giovinezza”. Ma quel breve scritto accennava soprattutto ad alcune sfide lanciate, proprio dalla cultura politica “grillina”, alla concezione tradizionale della democrazia rappresentativa: un tema, credo, rilevante nel simposio organizzato dal deputato. Eppure, il Collega ignora del tutto questo aspetto, e si concentra unicamente sul titolo dello scritto, e sulla parola che in esso lo ha evidentemente colpito: “giovinezza”. Scrive il Collega (e si percepisce che freme di sdegno): «si è detto, con una parola che un po’ disturba, che l’art. 67 Cost. sta conoscendo una seconda “giovinezza”». Per spiegare e suggellare l’indignazione che l’utilizzo di questa parola dovrebbe suscitare, appresta la seguente nota al testo: «Giovinezza era la canzone che la Camera dei deputati usava nel periodo fascista, fra l’altro, per approvare una mozione professando entusiasmo» (segue dotta citazione di uno storico che attesta il fatto). Inizialmente tutto contento di leggere contributi sull’art. 67 della Costituzione, sono rimasto basito. La prima reazione, a caldo, è stata un sorriso un poco incredulo: che gli è preso, al Collega, per imbarcarsi in una così cervellotica accusa? Poi, però, mi sono preoccupato, sono nati sensi di colpa, ed è scattata la ricerca degli argomenti a difesa. Ho così pensato agli usi correnti dell’espressione “vivere una seconda giovinezza”; poi, ho cercato di ricordare l’utilizzo colto dell’espressione, ad esempio nella storia letteraria (mi è venuto in mente, ma è banale, “quant’è bella giovinezza, che si perde tuttavia” ecc.). Ho persino scoperto, andando su Google, che Giorgio Benvenuto, non propriamente una camicia nera, ha scritto un libro intitolato “La seconda giovinezza”… Ma non riuscivo a darmi pace, perché il tarlo del dubbio ormai aveva minato le mie certezze. Sarò incorso in apologia di fascismo? Per un giudice costituzionale in carica sarebbe grave. Alla fine, sempre più pervaso dai sensi di colpa, ho pensato che, col capo cosparso di cenere, avrei dovuto chiedere all’editore della rivista di modificare (retroattivamente: si potrà fare?) il titolo dell’articoletto. E mi è in particolare venuto in mente che, forse, avrei potuto proporre di sostituire “La seconda giovinezza dell’art. 67 Cost.” con “La Rinascita dell’art. 67 Cost.” (forse la parola Rinascita ha più accettabili assonanze…). Scherzi a parte. Vi sono cose sulle quali sorridere e cose invece assai serie. Gli attacchi proditori, e francamente immotivati, sono cose serie. Soprattutto, vorrei dire, in un contesto istituzionale non facile e gravido di rischi, c’è bisogno di idee e serietà. Non è facendo i censori delle parole che si difende il destino dell’art. 67 Cost. e della democrazia rappresentativa. Temo però che se questo impegno è svolto da questi difensori, con questi argomenti, il destino dell’art, 67 sia segnato
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