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FOCUS - Fonti del diritto N. 1 - 23/07/2018

 Sulle modalità di coesistenza fra Regolamenti delle Camere e fonti non scritte

In un fondamentale contributo degli anni Cinquanta, l’internazionalista Giuseppe Barile – contrapponendo al diritto della “volontà”, inteso come entità eteronoma rispetto ai suoi interpreti, il “diritto della coscienza”, ossia il risultato di una dinamica giuridica “spontanea” – aveva contestato l’assunto positivistico che identificava il diritto esclusivamente con la norma scritta prodotta da una volontà organizzatrice. L’obiettivo polemico che faceva da sfondo a questa linea di ragionamento era in particolare la «deformazione della realtà»[1] prodotta dalle concezioni volontaristiche, le quali – nelle declinazioni più radicali – avevano ricondotto persino la consuetudine entro il perimetro del dogma della volontà[2].

Anche grazie alla “rivolta” contro il volontarismo emersa nella dottrina internazionalista di quegli anni[3] può considerarsi oggi come un elemento acquisito il superamento della meccanica identificazione fra diritto e norma scritta. È anzi progressivamente emersa negli studi giuridici la consapevolezza che il dato testuale, per dirla con Paolo Grossi, non è altro che «una semplice manifestazione in attesa di diventare esperienza vissuta»[4].

E tuttavia, negli speciali territori del diritto parlamentare – i quali non a caso presentano alcune significative affinità con quelli del diritto internazionale[5] – la retrocessione del momento della scrittura continua ad essere percepita come un elemento di eccentricità in grado di compromettere, se non in alcuni casi la stessa giuridicità del diritto parlamentare, quanto meno l’ordinato e corretto funzionamento del sistema delle fonti[6]. È questo, per esempio, l’approccio che emerge nelle posizioni di quanti hanno denunciato l’esistenza nel Parlamento italiano di una «tirannia del precedente»[7] oppure di coloro che hanno rappresentato il sistema delle fonti del diritto parlamentare nei termini di una «piramide rovesciata»[8]. Da ultimo, una generale diffidenza verso il diritto non scritto sembrerebbe trasparire dalla revisione “organica” del Regolamento del Senato approvata il 20 dicembre 2017, la quale – parallelamente ad una opera di codificazione di numerosi precedenti – ha disposto la cessazione di efficacia dei pareri interpretativi della Giunta relativi ad articoli oggetto della riforma[9].

In effetti, astrattamente considerato, il modello operante all’interno del diritto parlamentare non dovrebbe essere altro che un’applicazione di criteri di sovra e sotto-ordinazione: l’implementazione della disciplina generale dettata dalla Costituzione sarebbe così di competenza delle “disposizioni di dettaglio” contenute nei Regolamenti parlamentari, a loro volta ulteriormente specificate nei Regolamenti minori[10]. Quanto alle regole non scritte, al pari di quanto accade in relazione agli usi nel diritto privato, queste dovrebbero intervenire esclusivamente in “accordo” con la norma scritta oppure allo scopo di colmarne eventuali lacune. Ebbene, anche a tacere della inidoneità di tale ricostruzione a dare conto del complesso “intarsio” fra legge e Regolamenti delle Camere[11], l’emancipazione del diritto parlamentare dai processi di scrittura concepiti secondo schemi volontaristici ha posto in crisi la rassicurante immagine del ciclo nomopoietico quale spazio fisico, astrattamente delimitato, dal quale le regole prodotte da fonti di grado inferiore non possono mai uscire[12]. Una conclusione, quest’ultima, alla quale del resto erano già pervenute ad inizio Novecento le pioneristiche ricerche di Santi Romano e di Antonio Ferracciu, ai quali si deve la sottolineatura della funzione di attualizzazione del diritto costituzionale spettante rispettivamente ai Regolamenti delle Camere e alla consuetudine parlamentare[13].

Alla luce di tali premesse, l’obiettivo di questo contributo è quello di provare a ipotizzare un diverso modello esplicativo del sistema delle fonti e delle norme del diritto parlamentare, tentando di dare conto della complessa coesistenza, anche in questo ambito, delle due dimensioni evocate da Barile (il “diritto della coscienza” e il “diritto della volontà”). Peraltro, prima di abbozzarne una tassonomia, occorre chiarire le ragioni, storiche prima ancora che teoriche, che giustificano l’assoluta specificità di questo sotto-sistema normativo



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