La crisi attuale è diversa da quelle che in passato hanno più volte fermato il processo di integrazione europea,, senza impedirgli però, dopo temporanee paralisi, di riprendere vigore. Sovranismo, populismo, nazionalismo identitario, democrazia maggioritaria e non più liberale ed aperta, sono tutti bastoni nuovi, che quel processo non aveva mai avuto fra le ruote. Per questo cambiano le prospettive stesse del nostro futuro. E’ ben possibile che un’architettura comune rimanga comunque, ma la domanda di oggi è se sarà quella di un’Europa integrata, magari a più e differenziati livelli, o sarà quella di un concerto delle nazioni, come quello che resse per oltre cinquant’anni il continente dopo il Congresso di Vienna del 1815. Nei decenni che sono arrivati sino (quasi) a quello in corso, il processo di integrazione, pur segnato dagli “stop and go” che ricordavo, è venuto avanzando grazie a un ciclo virtuoso, se si vuole prevedibile, ma di cui proprio oggi rileviamo l’importanza, perché è esattamente ciò che ci è venuto a mancare: l’integrazione europea procedeva e, nello stesso tempo, cresceva la convergenza a suo favore delle forze politiche nei contesti nazionali. Le spinte all’integrazione venivano da motori diversi, ma anche quando venivano –come vedremo fra poco- dalla Corte di Giustizia, erano assecondate dal consenso crescente delle forze politiche nazionali e quindi fatte proprie dagli stessi organi politici europei. Si veniva insomma realizzando quella “ever closer integration”, assunta come obiettivo costante e graduale nel Trattato di Roma, in conformità alla visione, lucida e lungimirante, che Robert Schuman aveva espresso nella sua famosa dichiarazione del 9 maggio 1950. Schuman, come tutti gli europeisti della generazione che aveva vissuto le tragedie della guerra, sapeva bene che il sogno della pace, da realizzare proprio con l’integrazione, doveva unire popoli tra i quali c’erano state e perduravano forti ostilità. E quindi non si poteva pensare ad un’operazione istantanea, occorreva dare il tempo a quelle ostilità di sopirsi, di tramutarsi pian piano in solidarietà reciproca. Questo del resto fu il senso del gesto grandissimo che, tramite lui, la Francia vittoriosa fece quel 9 maggio nei confronti della Germania sconfitta: ci siamo combattuti per il possesso del carbone e dell’acciaio; mettiamoli insieme, in proprietà comune nostra e degli altri europei che si uniranno a noi. E nacque la Ceca, la Comunità del Carbone e dell’Acciaio, madre della Comunità Economica Europea. In quei primi anni, non si contava soltanto sul tempo per sopire le ostilità. I primi architetti dell’Europa unita sapevano di poter disporre della grande risorsa che proveniva dal ricordo della guerra e del male che era stato fatto, dalle responsabilità che ne venivano e dalla forza dunque del messaggio: uniamo i nostri Stati perché finiscano le guerre fra noi. E l’integrazione, dopo la Ceca, continuò sul terreno sempre dell’economia, nella consapevolezza di chi la volle che il mercato comune non sarebbe stato fine a se stesso. Certo, contavano i benefici diretti che esso avrebbe dato, ma contava anche abituare gli europei ad avere interessi comuni, a riconoscerli e quindi, gradualmente, a sentirsi dotati di una identità comune e a portare così l’integrazione oltre l’economia… (segue)
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