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NUMERO 17 - 12/09/2018

 Un sassolino nella scarpa. La Catalogna come chiave della crisi del modello territoriale spagnolo

Lo Stato spagnolo – e ci riferiamo, precisamente, alla forma-tipo di Stato – è entrato in crisi nella transizione al secolo attuale. Con il presente contributo ci proponiamo di dar conto di alcune delle ragioni di tale crisi e del ruolo chiave che, in riferimento ad essa, assume la questione catalana, in particolare a partire dalla riforma dello Statuto di autonomia (EA) del 2006 e dalla nota sentenza 31/2010 del Tribunal constitucional (TC), considerata da molti osservatori il fattore scatenante del processo indipendentista iniziato nel 2012, con la rivendicazione del cd. diritto a decidere (Barceló e altri, 2015; Cagiao e Ferraiuolo, 2016). Per analizzare, in maniera approfondita, un tema di grande complessità è necessario un inquadramento di lungo periodo. Solo in tal modo sarà possibile cogliere la portata di una questione (in senso ampio) culturale, che affonda le radici nella storia spagnola contemporanea e nel processo di nazionalizzazione, modernizzazione e liberalizzazione dello Stato nel secolo XIX. Ogni qualvolta la Spagna si è aperta alla democrazia, sotto la spinta delle forze liberali e progressiste (in particolare nelle fasi del Sexenio Revolucionario – 1868-1874 – e della Segunda República – 1931-1936), si presenta il tema della decentralizzazione o federalizzazione dello Stato, nella prospettiva di dare risposta alle istanze di encaje (principalmente ma non solo) di Catalogna e Paesi Baschi. Se è possibile affermare che la Catalogna rappresenti un sassolino nella scarpa del costituzionalismo spagnolo, tale assunto acquisisce senz’altro maggior forza e consistenza in una prospettiva storica. Le prime due parti del contributo cercheranno di mostrare, sinteticamente, come lo Stato spagnolo abbia affrontato la questione già a partire da tempi risalenti, senza riuscire mai a trovare soluzioni soddisfacenti e definitive, fino alla riemersione del problema dopo la chiusura della lunga esperienza della dittatura franchista. Come si vedrà nella terza parte, la Costituzione del 1978 ricongiunge gli spagnoli alla democrazia e, come accaduto in fasi precedenti, riaffiorano le rivendicazioni catalane e basche. Le risposte ad esse offerte appariranno adeguate in una prima fase, ma si riveleranno insufficienti con il trascorrere del tempo e con l’evoluzione del sistema, allorquando emergeranno alcuni difetti di origine e significative incrinature (Cagiao, 2015b). Nella quarta e ultima parte, si esporranno brevemente i problemi di comprensione e adattamento del costituzionalismo spagnolo (in senso ampio: partiti politici, TC, dottrina) di fronte alla complessità interna: il processo indipendentista catalano risulterà una traccia, la più evidente, del fallimento del modello autonomistico. Da quest’ultimo punto di vista, saranno sottoposti ad analisi critica alcune nozioni e concetti di diritto costituzionale (sovranità, nazione, federazione) che appaiono eccessivamente piegati ai valori dello Stato-nazione liberale della nostra modernità politica, con una sostanziale rinuncia al mantenimento di una distanza critica, forse necessaria, per la scienza costituzionalistica (Beaud, 2007; Parent, 2011). In particolare – come proviamo a illustrare da diverso tempo (Cagiao, 2014a, 2014b, 2014c, 2015a, 2015c) – è essenziale comprendere che lo studio del fenomeno federale in Spagna (o, più in astratto, delle problematiche connesse al tipo di Stato) impone di prendere le mosse dagli apporti degli studi sul nazionalismo e sul federalismo, soprattutto da quelli prodotti a partire dagli anni Novanta del secolo scorso. Se fino a quel momento, come emerge dal lavoro di alcuni degli esperti di maggior fama (Caminal, 2002; Máiz, 2006 e 2008; Requejo, 2009; Norman, 2006; Gagnon, 2011), l’analisi del nazionalismo e del federalismo sembravano separate per compartimenti stagni, senza che le conclusioni raggiunte in un campo incidessero sulle tesi e i risultati dell’altro, successivamente alcune delle posizioni forti della dottrina dominante sono state superate (almeno in quanto tesi scientifiche o analitiche). Si consideri, quale esempio tra i tanti, il pregiudizio negativo che si associava, di norma, ai nazionalismi periferici, i quali – trattandosi di nazionalismi contro lo Stato – non potevano ritenersi movimenti con interesse serio e sincero per formule federali. La scoperta del nazionalismo di Stato (anche di uno Stato federale, come ad esempio gli Stati Uniti) ha fatto perdere terreno a tali posizioni, svelandone il carattere ideologico. Dal punto di vista metodologico, si ritiene dunque necessario un approccio alle tematiche affrontate che utilizzi gli strumenti della scienza giuridico-costituzionale in un’ottica pluridisciplinare, sensibile ai risultati raggiunti in altri campi del sapere, quali la filosofia, la scienza politica, la teoria del diritto, la sociologia (Parent, 2011; Ferraiuolo, 2016). Nel tempo, è emersa una certa aridità degli studi costituzionalistici, prodotta in parte da una propensione alla conservazione propria della disciplina, in parte da una chiusura epistemologica diffusa in alcune concezioni dominanti del diritto, come ad esempio il positivismo giuridico inteso non quale metodo di studio e inquadramento del fenomeno giuridico (che non chiude la scienza giuridica in se stessa, anzi la apre: Troper, 1994 e 2011) ma come concezione del diritto o, peggio ancora, come ideologia giuridica (Bobbio, 1994, 24). Senza il dialogo e il contatto con altre discipline (si pensi, appunto, alla scarsa attenzione prestata dal diritto costituzionale agli studi sul nazionalismo), si restringe la capacità di comprendere e spiegare correttamente i problemi in questa sede affrontati, anche nella prospettiva di predisporre soluzioni efficaci alla loro risoluzione… (segue)



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