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NUMERO 17 - 12/09/2018

 Il lavoro alle dipendenze delle società a controllo pubblico

La disciplina dei rapporti di lavoro dei dipendenti delle società a controllo pubblico (ScP) è sempre stata – anche prima dell’espressa affermazione contenuta nel D. lgs., 19 agosto 2016, n. 175 – saldamente ancorata a quella del “lavoro nell’impresa” (per dirla con il linguaggio del Codice civile), ciò in base a molteplici e solidi argomenti, in primis et ante omnia la natura privatistica della ScP quale datore di lavoro.  A ciò si deve aggiungere che, secondo il principio generale affermato dal Codice civile (artt. 2093 e 2129), le disposizioni relative al rapporto di lavoro nell’impresa si applicano anche agli enti pubblici, in mancanza di deroghe, o quando essi esercitano un’attività imprenditoriale. Peraltro una conferma di quanto appena affermato si ricava, ragionando a contrariis, dall’art. 1, co. 2, D. lgs., 30 marzo 2001, n. 165 che circoscrive il proprio ambito di applicazione ai rapporti di lavoro dei dipendenti delle PP.AA. ivi espressamente individuate nel cui ambito, di certo, non rientrano le ScP. Se, quindi, è scontato che la disciplina applicabile ai dipendenti delle ScP è quella privatistica, il tema che si pone riguarda, piuttosto, l’individuazione del perimetro delle deroghe o norme speciali che il legislatore, di volta in volta, ha dettato con riferimento a tale disciplina. Le motivazioni che hanno indotto il legislatore ad operare in tal senso – nel passato, ma anche nel D. lgs. 175/2016 – sono molteplici e possono essere ricondotte, almeno, a tre fattori. In primo luogo la necessità di realizzare un sistema di monitoraggio ed intervento sul costo del lavoro delle ScP, proprio perché questo costo finisce per gravare sulle PP.AA. controllanti, sollevando problemi delicati di finanza pubblica allargata. Inoltre l’estensione ai rapporti di lavoro delle ScP di alcuni limiti dettati per i dipendenti pubblici si palesa funzionale a scoraggiare la strumentale costituzione di ScP da parte delle PP.AA. finalizzata ad aggirare questi vincoli (specialmente quelli in tema di assunzioni) direttamente imposti dalla legge. Infine il legislatore ha ritenuto opportuno replicare alcuni obblighi previsti per le PP.AA. nei confronti delle ScP, seppure in forme diverse e spesso più attenuate, per garantire trasparenza ed eticità nella gestione dei rapporti di lavoro da parte di soggetti che, seppure di natura privatistica, operano sotto il controllo e nell’interesse delle PP.AA.. Ciò è avvenuto, ad esempio, per le modalità di reclutamento del personale dipendente, per i tetti imposti alle retribuzioni dei dirigenti e degli amministratori e le relative forme di pubblicità obbligatoria. Appare inutile ripercorrere le deroghe alla disciplina privatistica dei rapporti di lavoro dei dipendenti delle ScP precedenti al D. lgs. 175/2016, se non per ricordare una di quelle più significative sul piano dei contenuti – ma con scarsi effetti quanto alla sua concreta applicazione – prevista dal D.L., 10 novembre 1978 n. 702, convertito con L. 8 gennaio 1979 n. 3 (c.d. decreto Stammati) che all’art. 5-ter stabiliva il divieto per le ScP degli Enti locali di “stipulare accordi integrativi aziendali, relativi al trattamento del personale dipendente che prevedono erogazioni economiche aggiuntive ai contratti nazionali di categoria, nonché accordi che trattino materie o istituti non espressamente demandati a tale sede dai contratti collettivi nazionali di lavoro della categoria”, aggiungendo che “sono nulli” gli accordi sottoscritti in violazione di tale divieto. Appare, invece, importante evidenziare – anche perché ciò consente di apprezzare meglio il valore del D. lgs. 175/2016 – che, dalla fine del 2007, si è assistito ad una produzione normativa, disordinata e via via stratificatasi nel tempo, con la quale il legislatore, sulla scia degli interventi riservati ai dipendenti delle PP.AA.,  ha imposto una serie di limiti alle ScP incentrati, prevalentemente, sulle assunzioni del personale dipendente e sui tetti alla retribuzione massima erogabile. Si è trattato di una legislazione dilagante, assolutamente priva di organicità e di complessa interpretazione, anche in considerazione del fatto che il legislatore ha disseminato in vari testi normativi le disposizioni di volta in volta dettate per contenere la spesa pubblica che, per di più, venivano spesso replicate o modificate con poca consapevolezza del contesto normativo nel quale si andavano ad inserire e degli effetti prodotti da tali inserimenti sulla complessiva disciplina del lavoro alle dipendenze delle ScP. Ma ciò che colpisce di più di questa legislazione è l’effetto alone che essa ha generato, inducendo in molti la convinzione che operasse nel nostro ordinamento una sorta di automatismo per il quale le norme dettate dal legislatore per i dipendenti pubblici dovevano essere applicate estensivamente anche a quelli delle ScP. Si venuto così a realizzare (ed autoalimentare) un vero e proprio capovolgimento del corretto metodo interpretativo per il quale, a fronte della regola generale dell’applicabilità al personale delle ScP della disciplina privatistica del lavoro subordinato nell’impresa, ogni deroga avrebbe deve essere prevista espressamente da una specifica disposizione di legge… (segue)



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