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NUMERO 18 - 26/09/2018

 La proposta di autonomia differenziata delle Regioni del Nord

L’art. 116, comma 3 della Costituzione è stato oggetto di attenzione da parte della dottrina a fasi alterne. Subito dopo l’entrata in vigore della riforma del Titolo V della Costituzione, molti sono stati i contributi che si sono cimentati nella ricostruzione dell’origine della norma, del suo significato e delle modalità della sua applicazione; e numerose e variegate sono risultate, in questa che si potrebbe definire la prima stagione della “dottrina 116”, le interpretazioni, favorite, in questo, dalla formulazione a tratti aperta, se non ambigua, della disposizione, originale anche rispetto ad esperienze di altri paesi europei, e dal suo carattere di forte novità rispetto all’impianto costituzionale previgente, improntato non già alla differenziazione, bensì all’uniformità dell’ordinamento regionale delle Regioni a statuto ordinario. Vi è poi stata una seconda, altrettanto intensa fase di attenzione dottrinale scaturita dal concreto avvio, da parte di alcune Regioni, di iniziative volte ad ottenere tale riconoscimento di autonomia differenziata: il riferimento è anzitutto alla proposta di autonomia speciale per i beni culturali predisposta dalla Regione Toscana nel 2003, ma, soprattutto, alle trattative avviate da alcune Regioni (in particolare, le stesse Lombardia e Veneto) nel 2007, in un periodo di endemica incertezza del regionalismo italiano, da cui scaturì un disegno di legge governativo di attuazione dell’art. 116, poi non portato a compimento (come l’intera procedura) per la fine anticipata della legislatura. In quel frangente la dottrina ebbe modo di riprendere ed approfondire nuovamente le questioni concernenti l’interpretazione del citato articolo, anche in tal caso non giungendo però a posizioni univoche circa la sussistenza di una “unica via” per la sua attuazione e comunque concentrandosi prevalentemente, oltre che sui variegati contenuti delle proposte avanzate, sul tema della necessità o dell’opportunità di far precedere l’attivazione concreta della procedura dall’adozione di una disciplina generale quadro. La terza fase è naturalmente quella più recente, scaturita dai referendum “per l’autonomia” indetti dalle Regioni  Lombardia e Veneto e svoltisi il 22 ottobre 2017, dopo il risolutivo intervento della Corte Costituzionale;  fase in parte anticipata dal dibattito dottrinale sviluppatosi attorno al progetto di revisione costituzionale del 2016, bocciato dagli elettori con il referendum del 4 dicembre di quell’anno, che, su presupposto di voler creare nuove condizioni per un concreto ricorso al regionalismo differenziato, in un contesto di forte limitazione della potestà legislativa regionale, prevedeva di ridurre il quorum per l’approvazione della proposta da parte del Parlamento, modificando però in parte l’elenco delle materie devolvibili e, al contempo, introducendo una nuova espressa condizione – quella dell’equilibrio tra entrate e spese del bilancio – per la proposizione dell’iniziativa da parte della Regione. In questa più recente dottrina, l’attenzione si è soprattutto concentrata, da un lato, sull’elemento di novità costituito dall’aver le due citate Regioni indetto un referendum consultivo, non previsto dall’art. 116, dall’altro, sulle conseguenze finanziarie delle due iniziative, entrambe legate – almeno originariamente - alla richiesta di trattenere su proprio territorio l’intera quota del cd. residuo fiscale. Tanto è stato vivo l’interesse su questi due temi da mettere in secondo piano, almeno in principio, la parallela proposta della Regione Emilia-Romagna, che sin dall’origine si è distinta, invece, per la mancanza di questi due elementi (il ricorso alla democrazia diretta; la richiesta di una autonomia fiscale differenziata, fondata sul presupposto della maggiore capacità fiscale piuttosto che sull’esigenza di copertura delle nuove competenze). Anche in questa occasione, naturalmente, la dottrina ha ripreso le questioni di natura più generale circa la portata dell’articolo 116, il procedimento per la sua attivazione, i limiti e le connessioni con altre forme di autonomia regionale riconosciute in Costituzione. Ne è scaturita la stessa ricchezza e varietà di posizioni (favorevoli, aperte, scettiche) manifestatasi nella prima stagione di attenzione a questa norma, ma anche una rinnovata consapevolezza delle possibili, importanti implicazioni di questa nuova stagione di attivismo regionale: un attivismo che sarebbe riduttivo ricondurre solo al fallimento del progetto di revisione costituzionale ed al suo effetto stabilizzante, se non addirittura rinvigorente, nei confronti delle autonomie regionali, ma che va piuttosto collegato alle perduranti criticità e limiti entro i quali il Titolo V è stato interpretato ed attuato, ed alle difficoltà specifiche delle Regioni del Nord a tradurre in atto i propri obiettivi di ulteriore innalzamento dei propri standard di azione, in un quadro caratterizzato da mille vincoli ed intromissioni da parte del legislatore statale. Su questo punto, del resto, concorda anche la dottrina più critica nei confronti della prospettiva del regionalismo differenziato: la sua origine dalla crisi del principio autonomistico… (segue)



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