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NUMERO 22 - 21/11/2018

 La 'riserva' di amministrazione nella gestione del debito pubblico (dello Stato) e i conseguenti limiti al sindacato giurisdizionale della Corte dei Conti.

La sentenza in commento offre l’occasione per affrontare, da un duplice angolo di visuale -  (i) quello sostanziale relativo alle (eventuali) limitazioni all’utilizzo di strumenti finanziari aleatori da parte delle pubbliche amministrazioni; (ii) e quello processuale, dei limiti che incontra il giudice nel sindacato sulla validità/liceità delle operazioni negoziali e finanziarie compiute dalla p.a. -, il tema dell’uso di strumenti finanziari derivati tutte le volte che vengano in rilievo risorse pubbliche. La peculiarità di una simile indagine deriva sia dalla complessità della fattispecie negoziale in esame, sia dalla natura giuridica di una delle parti contraenti. In assenza di una definizione normativa, i derivati – quali strumenti che finanziari che originano nella prassi dei mercati finanziari -  sono stati definiti dalla Banca d’Italia, come quei “contratti che insistono su elementi di altri schemi negoziali, quali titoli, valute, tassi di interesse, tassi di cambio, indici di borsa, ecc. il loro valore deriva da quello degli elementi sottostanti”; anche la dottrina si esprime negli stessi termini affermando generalmente che i derivati, come suggerisce l’espressione stessa, sono contratti il cui valore dipende da quello di una  variabile sottostante (indice di borsa, quotazioni azionarie, tassi di cambio, tassi di interesse ecc..). Il Testo Unico in materia di intermediazione finanziaria all’art. 1 c. 2 lettere d), e), f), g), h), i), j), individua i diversi strumenti finanziari rientranti nella categoria dei derivati, ma non offre una definizione della tipologia contrattuale generale, sia per le difficoltà che si riscontrano nel tentativo di astrazione dalle molteplici fattispecie in cui si si sostanzia il genus dei derivati di elementi comuni che consentano di pervenire ad una definizione onnicomprensiva; sia per la necessità di non imbrigliare entro una definizione statica una realtà in permanente evoluzione. Indubbia è l’intrinseca aleatorietà dei contratti in parola che assumendo come riferimento il valore di un “sottostante”, dipendono il loro valore dalle fluttuazioni che le grandezze economiche di riferimento possono assumere nel tempo; peraltro, è evidente che la conclusione di un contratto avente ad oggetto simili strumenti finanziari presuppone opposte stime previsionali da parte dei contraenti. Dal punto di vista della funzione i derivati nascono nella prassi dei mercati finanziari per assolvere ad una finalità di copertura; essi, in quanto idonei ad assicurare una gestione attiva del rischio di mercato connesso all’andamento delle variabili del mercato stesso, si sono rivelati particolarmente appetibili in un periodo storico caratterizzato da una forte instabilità dei tassi di cambio e di interesse. Un contratto derivato assolve ad una finalità di copertura (hedging) quando risulti funzionalizzato alla neutralizzazione o comunque al contenimento dei rischi connessi all’andamento sfavorevole di una variabile finanziaria ad esso preesistente, attraverso la creazione di una posizione speculare e opposta rispetto all’elemento da coprire. La copertura del rischio garantita dai contratti derivati non è tuttavia assoluta: i derivati sono infatti contratti aleatori, rispetto ai quali l’esito finale dell’operazione e le prestazioni cui sono tenute le parti, in quanto dipendenti dalla non prevedibile variazione del sottostante, non possono essere predeterminate con certezza. La flessibilità dello strumento finanziario in esame ha consentito l’emersione di derivati preordinati ad una finalità speculativa (trading): ciò accade, in particolare, quando la stipulazione del contratto si risolve in una “scommessa” circa l’andamento futuro di una variabile finanziaria al fine di conseguirne un profitto, confidando nella bontà della propria previsione circa il corso dell’elemento sottostante. In tal caso è la stipulazione del contratto a creare un rischio prima inesistente; di qui il suo carattere speculativo. Occorre precisare che se la distinzione tra intento di gestione del rischio ed intento speculativo - elaborata dalla dottrina anche al fine di sostenere l’applicazione dell’art. 1933 c.c. a simili contratti - appare superata in termini civilistici (ammettendosi una astratta meritevolezza di tutela dello scopo speculativo nel nostro ordinamento che risiede essenzialmente sul dato formale mancanza di una distinzione normativa dei contratti in esame in relazione alle finalità perseguita), il limite finalistico sembra tornare ad acquisire una autonoma rilevanza con riferimento alla fattispecie posta in essere da soggetti rientranti nel plesso delle pubbliche amministrazioni, la cui attività di diritto privato deve essere comunque improntata a finalità compatibili con il pubblico interesse perseguito (su cui vedi infra par.5). Il presupposto “storico” della diffusione dell’accesso delle pubbliche amministrazioni al mercato dei capitali e della diffusione del ricorso a forme di finanza innovativa ai fini della gestione del debito pubblico appare duplice: la crisi economica e finanziaria che in Europa ha assunto le vesti di crisi del debito sovrano, ha creato una generale condizione di scarsità delle risorse pubbliche e di aumento del costo del debito esistente; il processo di integrazione europea e gli obiettivi ivi stabiliti di una sana e prudente gestione delle risorse pubbliche, accompagnati dall’implementazione di regole vincolistiche e parametri numerici ai fini del rispetto degli obblighi di equilibrio di bilancio e sostenibilità del debito pubblico, ha contribuito a sollecitare interventi di riduzione del livello di indebitamento pubblico e la previsione di limiti alla capacità di contrarre nuovo debito. Simili processi hanno quindi imposto politiche di gestione attiva del debito pubblico pregresso in funzione tanto della riduzione del costo del debito stesso, quanto del miglioramento della capacità di indebitamento degli enti pubblici. E’ infatti nel contesto del risanamento delle finanze pubbliche che si diffondono nelle pubbliche amministrazioni operazioni di ristrutturazione del debitoe nuove forme di finanziamento nel panorama degli strumenti offerti dalla finanza innovativa. Gli obiettivi di gestione attiva del debito si realizzano, essenzialmente, attraverso operazioni di ristrutturazione mediante le quali l’amministrazione, modificando le precedenti posizioni debitorie e sfruttando a proprio vantaggio le condizioni presenti sul mercato, dovrebbe raggiungere un beneficio economico. Tradizionali operazioni di ristrutturazione del debito sono la rinegoziazione o l’estinzione anticipata del debito; simili operazioni possono però risultare particolarmente costose. In questo contesto gli strumenti di finanza innovativa (tra i quali rientrano i derivati finanziari) che, pur lasciando immutato il debito precedente consentono di rimodulare la struttura debitoria, sono apparsi strumenti idonei rispetto agli obiettivi prefissati; contestualmente, tuttavia, il loro utilizzo espone le risorse pubbliche agli umori del mercato finanziario e ai rischi che discendono dalla loro variazione. Il fondamento “teorico” della possibilità per le pubbliche amministrazioni di utilizzare strumenti finanziari derivati è costituito dalla riconosciuta generale capacità di diritto privato degli enti pubblici quale portato naturale della soggettività giuridica pubblica: essa postula che le autorità pubbliche possano espletare l’attività amministrativa anche attraverso l’utilizzo di moduli privatistici (tra i quali rientrano anche la stipulazione di contratti atipici, quali i derivati finanziari), comunque funzionalizzati al perseguimento dell’interesse pubblico (su cui v. infra par. 4). Con riguardo ai contratti inerenti prodotti finanziari derivati stipulati dalle pubbliche amministrazioni il legislatore si è progressivamente preoccupato di delimitarne l’accessibilità attraverso la previsione di limiti e divieti quanto alla possibilità del loro utilizzo, dapprima consentendo esclusivamente la stipulazione di contratti connotati da una finalità di copertura con esclusione di qualsivoglia obiettivo speculativo ritenuto incompatibile con la gestione di risorse pubbliche, e poi vietando (salve eccezioni) la possibilità di ricorrere a tali strumenti. Una simile disciplina vincolistica ha però riguardato solo le pubbliche amministrazioni territoriali: a partire dalle leggi finanziarie 2007 e 2008 sono stati introdotti limiti all’utilizzo di strumenti finanziari derivati da parte di regioni ed enti locali. La legge finanziaria per il 2009 ha poi vietato a Regioni, Province ed agli enti locali di stipulare contratti relativi a strumenti finanziari derivati fino alla data di entrata in vigore di un apposito regolamento del Ministro dell’economia e delle finanze, cui era demandata l’individuazione della tipologia dei contratti su derivati che potevano essere stipulati dagli enti territoriali.  L’art. 1, comma 572, della legge n. 147 del 2013 (legge di stabilità 2014) ha poi reso permanente il divieto per detti enti di ricorrere a tali strumenti, salve le ipotesi espressamente consentite dalla legge. Tale disciplina vincolistica non ha, invece, interessato l’amministrazione centrale, per la quale, in assenza di un quadro normativo che formalmente stabilisca limiti e divieti alla stipulazione di contratti in derivati finanziari, si pone la questione teorica, di carattere sostanziale, della sussistenza o meno di limiti ontologici per la p.a. alla stipulazione di contratti intrinsecamente rischiosi nonché dell’individuazione dei parametri di legittimità dell’azione pubblica e dei limiti all’esercizio dell’attività; nonché quella di carattere processuale (che appare consequenziale rispetto alla soluzione della prima) relativo ai limiti esterni che incontra il giudice amministrativo (nel caso che qui interessa il giudice contabile) nel sindacato giurisdizionale… (segue)



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