
La lunga, e ben argomentata, sentenza, con la quale la Corte Suprema indiana ha posto fine alla criminalizzazione dei rapporti omosessuali, comincia citando Von Goethe, Schopenhauer e Shakespeare. Comincia con un elogio dell’individualità, dell’autonomia e della pari dignità di tutte le differenze di identità che fanno «di ciascuna persona un individuo differente da tutti gli altri e di ciascun individuo una persona uguale alle altre». La Corte Suprema dichiara così incostituzionale la Section 377 del Codice penale indiano (IPC) che puniva «any carnal intercourse against the order of nature» poiché in contrasto con quelli che definisce i quattro pilastri dell’architettura costituzionale indiana: «individual autonomy and liberty, equality for all sans discrimination of any kind, recognition of identity with dignity and privacy of human beings». Nelle oltre quattrocento pagine che compongono la decisione in commento, la Corte non teme di autodefinirsi «the final arbiter of the constitutional rights», di conferirsi il compito di mantenere «vitale» la Carta costituzionale e non lesina ampi e dettagliati riferimenti alla giurisprudenza straniera e internazionale per sostenere l’incostituzionalità della norma impugnata. Questo esito era tutt’altro che scontato. Solo pochi anni prima la stessa Corte si era pronunciata nel senso opposto, con una motivazione alquanto stringata e che sembrava non lasciare adito a ulteriori discussioni. Prima di entrare nel merito della decisione in parola è bene quindi ripercorrere brevemente i suoi antecedenti giurisprudenziali alla luce del quadro costituzionale indiano… (segue)
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