Il conflitto di attribuzioni sollevato da trentasette senatori del Partito democratico circa le modalità con cui il Senato ha approvato, nella notte tra il 22 ed il 23 dicembre 2018, il disegno di legge Bilancio di previsione dello Stato per l’anno finanziario 2019 e bilancio pluriennale per il triennio 2019-2021, presentava profili affatto peculiari e, c’è da augurarsi, irripetibili: a) l’estrema compressione dei tempi di esame parlamentare a causa di forzature procedurali che avevano in particolare totalmente vanificato l’esame istruttorio in commissione, non consentendo ai senatori di conoscere il testo in discussione e, di conseguenza, esprimere un voto consapevole; b) l’essersi ciò verificato in relazione non ad una proposta di legge qualsiasi – il che ovviamente sarebbe comunque grave – ma, come detto, alla legge di bilancio 2019 “in cui si concentrano le fondamentali scelte di indirizzo politico e in cui si decide della contribuzione dei cittadini alle entrate dello Stato e dell’allocazione delle risorse pubbliche” (ordinanza 17/2019, d’ora in poi sottintesa, 4.1 cons. dir.), per questo motivo da sempre rimessa alla approvazione dei Parlamenti e oggetto di specifiche disposizioni costituzionali su iniziativa (riservata), contenuto, tempi e approvazione da parte dell’Assemblea (artt. 72.4 e 81 Cost.); c) l’irrituale scelta dei ricorrenti di presentare il ricorso (il 28 dicembre) a procedimento parlamentare ancora in corso e di non chiedere l’annullamento “di alcuno degli atti ritenuti lesivi” (1 c.d.) all’evidente scopo di mettere la Corte costituzionale nella condizione di non doversi preoccupare degli immediati effetti di un eventuale accoglimento. Era in base a tali peculiarità che, chi conosce la consolidata giurisprudenza costituzionale circa l’assoluta insindacabilità degli interna corporis acta parlamentari, culminata da ultimo nella ordinanza n. 149/2016 (redatta dallo stesso giudice) sul c.d. caso Giovanardi, poteva nutrire una seppur minima speranza di accoglimento. Speranza, ancora una volta, però disattesa dalla Corte costituzionale con l’ordinanza n. 17/2019 qui brevemente commentata. Per quanto prevedibile, infatti, essa riesce comunque a suscitare forti perplessità ed ulteriori motivi di delusione. È, infatti, netta la sensazione che con tale ordinanza la Corte abbia posto il definitivo sugello ad una giurisprudenza che si è progressivamente allontanata dal presupposto - da cui aveva pur preso le mosse, con la storica sentenza n. 9/1959 - della piena sindacabilità delle violazioni delle disposizioni costituzionali sul procedimento legislativo da parte dei regolamenti e delle prassi parlamentari. La Corte sembra, infatti, smentire ancora una volta – e, forse, definitivamente - il ragionevole punto di equilibrio raggiunto in quella sentenza, allorquando aveva rivendicato a sé il controllo sui vizi formali della legge, solo quando derivanti dalla diretta violazione delle garanzie costituzionali a tutela del “giusto procedimento legislativo”, di sua esclusiva interpretazione, lasciando per il resto alle camere le violazioni di disposizioni regolamentari, espressione della loro potestà normativa e sulla interpretazione delle quali era invece decisivo il loro apprezzamento. Sulla base di tale distinzione, la Corte aveva affermato che il proprio controllo sul rispetto delle disposizioni costituzionali relative al procedimento legislativo non ledeva l’indipendenza di ciascuna camera, la cui autonomia regolamentare andava ovviamente esercitata nei limiti da esse posti. Con tale ordinanza, invece, di fronte ad una così patente e grave violazione dell’esame di merito in commissione ed in Aula della legge di bilancio, la Corte costituzionale non procede – come ci si sarebbe atteso e come richiesto dal ricorso – all’interpretazione dell’art. 72 Cost. per verificare se nel caso specifico ne sia stato violato il contenuto minimo essenziale “diretto ed espresso” sul procedimento legislativo. Né la Corte connette il rispetto di tali garanzie procedimentali con la tutela delle attribuzioni costituzionali del singolo parlamentare e con l’esercizio delle sue funzioni in forza dell’art 67 Cost. Al contrario, la Corte volutamente derubrica la fattispecie a mera controversia regolamentare (profilo invece strategicamente omesso nel ricorso), priva di qualsiasi rilievo costituzionale, addentrandosi in una parziale, e perciò opinabile, ricostruzione della vicenda con l’evidente intento di dare maggior peso agli elementi che possano giustificare retroattivamente quanto accaduto. Inoltre, dall’ordinanza in commento pare doversi intendere preclusa la sindacabilità dei regolamenti parlamentari tramite il conflitto di attribuzioni, via timidamente suggerita dalla stessa Corte una volta esclusa la loro impugnazione diretta quale oggetto o parametro di costituzionalità. Il che, peraltro, era prevedibile. Se, infatti, si sostiene che i regolamenti parlamentari, “in quanto svolgimento diretto della Costituzione, hanno una «peculiarità e dimensione» (sentenza n. 78 del 1984), che ne impedisce la sindacabilità, se non si vuole negare che la riserva costituzionale di competenza regolamentare rientra fra le guarentigie disposte dalla Costituzione per assicurare l’indipendenza dell’organo sovrano da ogni potere” (sentenza 154/1985, 5.1 c.d.), si utilizzano argomenti dirimenti di tale forza giuridica e peso “istituzionale” tali da potersi opporre a qualunque strumento diretto a sindacare la costituzionalità dei regolamenti e delle prassi parlamentari… (segue)
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