Una delle questioni che, più di altre, ha caratterizzato il recente dibattito – sia politico che scientifico – è, senza dubbio, quella inerente alle modalità di affidamento e gestione del servizio idrico integrato. Centralità comprovata, a ben osservare, dai reiterati interventi normativi in materia, da cui è tuttavia scaturita una legislazione settoriale così stratificata da renderne assai complessa la ricomposizione in un quadro unitario. Ebbene, come si rammenterà, a seguito della consultazione referendaria tenutasi nel 2011, è stato abrogato l’art. 23-bis del d.l. n. 112 del 2008, il quale conferiva alla gestione in house dei servizi pubblici locali di rilevanza economica (di seguito anche SPL) carattere eccezionale rispetto agli affidamenti tramite procedure ad evidenza pubblica. Per questa via, come ebbe a preannunciare la Corte in sede di giudizio di ammissibilità, si è giunti all’applicazione «immediata […] della normativa comunitaria», la quale «consente, anche se non impone, la gestione diretta del servizio pubblico da parte dell’ente locale, allorquando l’applicazione delle regole di concorrenza ostacoli, in diritto o in fatto, la speciale missione dell’ente pubblico». In realtà, ad un esame più puntuale della disciplina comunitaria, è possibile rinvenire un generale principio di neutralità in relazione agli «assetti proprietari delle imprese, vale a dire la sostanziale indifferenza […] rispetto ai modelli organizzativi degli operatori economici». In questa prospettiva, infatti, l’art. 36 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea statuisce che, «al fine di promuovere la coesione sociale e territoriale dell’Unione, questa riconosce e rispetta l’accesso ai servizi d’interesse economico generale quale previsto dalle legislazioni e prassi nazionali, conformemente ai trattati»… (segue)
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