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NUMERO 6 - 20/03/2019

 Verso il controllo penale degli assetti parlamentari?

La sentenza in epigrafe, aprendo un sentiero finora ignoto, disegna l’inedito modello criminoso della ‘corruzione del parlamentare per l’esercizio della funzione di indirizzo politico’. In generale, il tema della configurabilità della corruzione del parlamentare pone interrogativi non indifferenti al penalista che operi nella cornice assiologica della Costituzione repubblicana, in quanto gli impone di confrontarsi con un ‘materiale codicistico’ che, se non utilizzato razionalmente, potrebbe dischiudere scenari gravemente eccentrici rispetto ai principi e alle regole che fondano l’architettura costituzionale dell’ordinamento democratico. E ciò spiega, plausibilmente, l’atteggiamento – cauto fino all’immobilismo – mostrato, in tale campo di materia, dalla stessa prassi giudiziaria. Infatti, l’ipotesi della corruzione del parlamentare (con riferimento ad una caso, invero, privo delle note specifiche che caratterizzano la questione trattata dalla pronuncia in commento) è stata sottoposta allo scrutinio della Corte di Cassazione – sia pure nella limitata ottica di una decisione relativa ad un ricorso proposto dalla Procura di Milano avverso sentenza di non luogo a procedere emessa dal G.u.p. del Tribunale milanese – soltanto nel 2017. Ma la vera svolta arriva, per l’appunto, con la sentenza sulla ‘vicenda Berlusconi – De Gregorio’, che interviene in questo delicato ambito, privo di precedenti, con una soluzione ermeneutica particolarmente radicale. La ‘Berlusconi – De Gregorio’, infatti, non si limita ad affrontare il tema generale della sostenibilità giuridica della corruzione del parlamentare, ma contiene una novità ancor più dirompente: afferma, per la prima volta, la possibile tipicità corruttiva delle trattative concernenti gli assetti delle maggioranze di governo.  Riguardata sotto questo angolo prospettico, la pronuncia della Suprema Corte ha, in un certo senso, il merito di ‘costringere’ la comunità penalistica (e, più in generale, quella giuspubblicistica) a ‘prendere una posizione’ o, quantomeno, ad approfondire i termini del problema anche in ragione delle prevedibili implicazioni applicative che ne deriveranno per il futuro. Nondimeno, può già anticiparsi che, a parere di chi scrive, la trama argomentativa sviluppata dai giudici della Cassazione, pur raffinata nei contenuti e sapientemente costruita nelle forme espositive, desta alcune perplessità di fondo proprio alla luce delle istanze politico-criminali e istituzionali sancite dalla nostra Carta. Infatti, incide sui nervi scoperti del già difficile rapporto tra ‘diritto penale della pubblica amministrazione’ e principi costituzionali, anteponendo le funzioni di tutela a quelle di garanzia. E questo sbilanciamento si manifesta attraverso un’operazione di (ri)costruzione tipologica che finisce con il legittimare una inquietante penetrazione del controllo penalistico in quello spazio di dialettica politica che è sempre sottendibile alle dinamiche della democrazia parlamentare. Da ciò il rischio di una irrefrenabile espansione dell’intervento giudiziario penale nei rapporti politico-parlamentari, secondo moduli, allo stato attuale, solo parzialmente intuibili, ma sicuramente forieri di conseguenze istituzionali, finanche, più drammatiche di quelle sinora prodotte dallo storico conflitto tra ‘giustizia’ e ‘politica’ che caratterizza la transizione infinita vissuta dal nostro Paese. Nel sottolineare tale aspetto si è, altresì, ben consapevoli che il rilievo politico-mediatico del caso dedotto in giudizio e le connesse ‘letture profane’ di singoli passaggi della sentenza (estrapolati in maniera mirata da quanti aspirano ad orientare l’opinione pubblica) rischiano di precludere la possibilità stessa di articolare un discorso giuridico di segno critico… (segue)



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