L’introduzione delle misure di sicurezza quale strumento di potenziamento della difesa sociale nella lotta alla criminalità da affiancare alle sanzioni penali tradizionali, è da sempre ritenuta una delle più significative novità della codificazione degli anni ’30. Precipuamente, il nuovo meccanismo sanzionatorio ben si prestava ad assecondare l’autoritarismo repressivo dello stato fascista nella lotta ai fenomeni criminosi, traducendosi in un sistema di rigida difesa sociale che anteponeva l’obiettivo della tutela della collettività alle garanzie del singolo consociato. Tra le misure di sicurezza patrimoniali la confisca ha, sin da subito, rivestito un ruolo preminente in quanto strumento volto a colpire le cose avvinte da un legame pertinenziale con il reato commesso, la cui disponibilità rappresenta un fattore di incentivo alla reiterazione dell’attività criminosa. L’intentio legis va, pertanto, ravvisata nell’esigenza di prevenire la commissione di nuovi reati mediante l’espropriazione a favore dello Stato di cose che, provenendo dalla commissione di un fatto costituente reato o comunque ad esso ricollegabile, “mantengono viva l’idea e l’attrattiva del reato”. A differenza delle altre misure di sicurezza, la confisca prescinde dal requisito della pericolosità sociale dell’autore: presupposto indefettibile per la sua applicazione è, invero, la pericolosità oggettiva della res, costituente una presunzione iuris et de iure nelle ipotesi di confisca obbligatoria (in quanto ritenuta in re ipsa) e iuris tantum nell’ipotesi di confisca facoltativa. Scopo della confisca c.d. “tradizionale” è neutralizzare la pericolosità sociale connessa alla persistente disponibilità della cosa e non già sanzionare la commissione di un fatto illecito… (segue)
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