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Ripercorrere, oggi, il cammino delle più recenti riforme sul governo locale in Italia richiede di riportare alla mente le tappe, gli arresti, gli ostacoli incontrati così come i passi in avanti compiuti dal legislatore italiano lungo il suo percorso. E occorre anche segnare, sia pur idealmente, il momento in cui la strada intrapresa ha assunto una precisa direzione di marcia, dopo alcuni erratici tentativi di perlustrazione del terreno delle riforme locali. Come noto, tra gli anni 2007 e 2012, in un contesto attraversato da una forte crisi economica e istituzionale, i principali interventi sul governo locale nel nostro Paese furono animati da pressanti logiche di contenimento della spesa pubblica, che impressero alla produzione normativa di quel periodo tratti spesso confusi e caotici, produttivi di un generale e complessivo senso di disorientamento. Come venne denunciato da più parti anche in dottrina, nell’incoerenza dei singoli interventi, nell’assenza di prospettive di lungo termine nonché di validi modelli alternativi da proporre erano stati persi di vista alcuni dei principali punti di riferimento – a cominciare dal cardine del buon andamento delle pubbliche amministrazioni – e smarriti alcuni dei tratti più tipici dell’autonomia locale. Anche gli stessi processi decisionali si erano irrimediabilmente allontanati dagli steccati posti dalla Costituzione, risultando, da un lato, reiteratamente deviato il normale circuito dell’elaborazione parlamentare a causa di un ricorso talora eccessivo allo strumento accelerativo del decreto-legge e, dall’altro, fortemente alterato anche il riparto delle potestà legislative tra Stato e Regioni in materia. Non è un caso, del resto, che i principali tra quei provvedimenti normativi – il d.l. n. 201/2011 e il d.l. n. 95/2012, che procedevano, tra l’altro, ad un complessivo riordino delle Province e alla stessa istituzione delle Città metropolitane – furono dichiarati illegittimi dalla Corte costituzionale con la nota sentenza n. 220/2013, proprio per la scelta di affidare al meccanismo della conversione parlamentare dei decreti-legge riforme che avrebbero dovuto avere una vocazione ordinamentale e di sistema. Non entrando nel merito delle scelte compiute dal legislatore, la Corte riconobbe in quella pronuncia proprio la palese inadeguatezza dello strumento normativo impiegato a realizzare riforme che – secondo la Corte – non potevano possedere, per la sola situazione emergenziale in cui versava allora il Paese, il tratto della straordinarietà e dell’urgenza, richiedendosi, per contro, processi organici di discussione in seno al Parlamento… (segue)
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