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NUMERO 16 - 04/09/2019

 La prorogation dei Comuni e le reazioni di Westminster

La decisione del neo premier Boris Johnson, comunicata ai deputati il 28 agosto scorso, di chiedere alla regina la c.d. prorogation della sessione parlamentare a partire dalla seconda settimana di settembre fino al 14 ottobre rappresenta l’ultima tappa della lunga crisi costituzionale che sta travagliando il Regno Unito. Una crisi costituzionale che vede contrapporsi esecutivo e legislativo nel peculiare ed insolito contesto della presenza di un governo di minoranza, uscito delle elezioni del giugno 2017, il quale deve dare attuazione al risultato del referendum Brexit e, allo stesso tempo, è sostenuto da un partito profondamente diviso sul tema delle future relazioni tra Regno Unito ed Europa. Per cercare di comprendere la scelta del primo ministro appare opportuno leggerla nel contesto delle vicende degli ultimi mesi, che è necessario quindi ricordare brevemente. Come noto, il Regno Unito sarebbe dovuto uscire dall’Unione europea il 29 marzo scorso, ma – tra gennaio e marzo - la Camera dei Comuni ha respinto per tre volte l’accordo di recesso che Theresa May aveva raggiunto con l’Europa nel novembre 2018. Pertanto, all’inizio del mese di aprile, l’Unione europea aveva concesso un’estensione flessibile (flextension) dell’articolo 50 fino al 31 ottobre, auspicando che il Regno Unito usasse il tempo a disposizione per trovare un’intesa tra governo e parlamento, escludendo al contempo la possibilità di riaprire le trattative. In caso di mancata approvazione parlamentare dell’accordo di recesso il Paese dovrebbe uscire automaticamente il 31 ottobre con il no deal. La premier Theresa May a metà maggio, prima delle elezioni europee, aveva proposto al suo esecutivo di seguirla in un’ultima battaglia, quella diretta a far votare ancora una volta i deputati sull’accordo di recesso attraverso l’approvazione di un Withdrawal agreement bill che avrebbe previsto, oltre alle disposizioni necessarie per dare attuazione all’agreement, anche l’opportunità di tenere un referendum sull’accordo. La premier voleva altresì fare esprimere le Camere sul progetto di creazione di un’Unione doganale temporanea. La sua proverbiale resilienza non è stata questa volta sufficiente ad affrontare la protesta interna al partito, contrario al nuovo piano e pronto anche a cambiare le regole interne pur di sottoporre la leader ad un ulteriore voto di sfiducia. L’isolamento della May è stato poi accentuato dal fatto che il tentativo di dialogo con il leader del partito laburista Jeremy Corbyn al fine di trovare un’intesa parlamentare sulla Brexit  – dialogo iniziato per la verità fuori tempo massimo e dopo le bocciature dell’accordo di recesso - è definitivamente fallito per le insanabili divergenze emerse sull’Unione doganale. Le dimissioni della May, divenute effettive a partire dal 7 giugno, hanno avviato la selezione interna al partito conservatore per la scelta del nuovo leader e hanno portato alla nomina a primo ministro di Boris Johnson. Tale nomina è avvenuta il 24 luglio, solo un giorno prima che il parlamento sospendesse le sue attività per la lunga pausa estiva... (segue)



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