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L’atteggiarsi della conferenza di servizi a luogo per ritrovare efficienza decisionale a discapito di processi deliberativi plurali e inesorabilmente complessi costituisce uno degli esiti del percorso di riforme amministrative dell’ultimo decennio, che ha tentato di far assurgere l’efficienza economica a criterio guida della regolazione pubblica delle attività private e dei relativi mercati. La questione se questo esito sia corretto viene oggi posta al vaglio della Corte costituzionale e risolta in senso positivo con la sentenza n. 9/2019. L’occasione è data dall’impugnazione, da parte del Presidente del Consiglio dei ministri, di alcune disposizioni della legge della Regione Lombardia di attuazione dei decreti della legge cd. Madia (142 del 2015), relativa alla disciplina della conferenza dei servizi, ai regimi amministrativi applicabili a determinate attività e procedimenti e a ulteriori misure di razionalizzazione. La Presidenza ha fatto valere come propri titoli di competenza esclusiva legislativa, idonei a legittimare l’impugnazione delle disposizioni regionali relative alla conferenza di servizi, sia la determinazione dei livelli essenziali delle prestazioni concernenti i diritti civili e sociali che devono essere garantiti su tutto il territorio nazionale (art. 117, secondo comma, lettera m, Cost.) sia la tutela dell'ambiente, dell'ecosistema e dei beni culturali (lett. S, del medesimo art. 177 Cost.). In particolare, è stata oggetto di giudizio la disposizione della legge regionale che prevede (art. 2, comma 1, lettera b) che, nel caso in cui la conferenza di servizi necessiti di un provvedimento di competenza di un organo di indirizzo politico, quest’ultimo sia acquisito o prima della convocazione della conferenza o successivamente alla determinazione motivata di conclusione della stessa disponendo, per questo secondo caso, la sospensione dell’efficacia della determinazione fino alla formalizzazione del provvedimento… (segue)
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