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NUMERO 19 - 16/10/2019

 Dal diritto delle costruzioni nelle città al governo del territorio

Il percorso che porta dal diritto amministrativo dell’edilizia al sintagma ricevuto nella Carta – il governo del territorio – non è a mio avviso descrivibile come un semplice allargamento di scala. Vi è, di certo, una servitù di vocabolario dalla quale si deve per quanto possibile affrancarsi. Forse per un fenomeno di inerzia semantica la locuzione «governo del territorio» è sempre stata letta e collocata in una qualche relazione di continuità col lemma «urbanistica». Già l’analisi normativa al massimo livello, quello costituzionale, porta a moti di sconforto. L’assetto originario, quello cioè anteriore alla riforma del 2001, brillava infatti per l’incompetenza del Costituente. I lavori preparatori non registrano alcun dibattito sul contenuto del lemma, che anzi si dà per presupposto o – meglio – ignoto. Di qui, poi, anche la scelta, altrettanto immeditata, di attribuire la materia alle Regioni: perché – secondo il Costituente – l’urbanistica concerne «quasi esclusivamente la competenza degli enti locali» e perché «i piani regolatori debbono essere approvati con legge». Due errori rispettivamente di fatto e di diritto. E che condizioneranno non poco lo sviluppo del dibattito sia sul contenuto della materia-funzione in parola, sia sul disegno organizzativo. Quel «quasi esclusivamente» rispecchia bene – sebbene trascritta sul piano dell’attribuzione competenziale – una tendenziale stenosi del campo osservativo: l’urbanistica sarà sempre vista come affare soprattutto comunale perché riguarda la città, l’urbs. O comunque, se lo sguardo cerca talvolta di spingersi oltre, verso cioè le aree non edificate, non sposta il suo presupposto, tanto implicito quanto fermo. Un po’ come la rosa dei venti, coi nomi battezzati da un immaginario uomo di mare che, da Zacinto ancora veneziana, li avverte provenienti dai quattro angoli del Mediterraneo. Il punto di vista non muta, dicevo. Come il tema di fondo: la gestione della città. Muovendo dal suo centro e via via allargandosi sino all’agro ancora libero. L’uomo insediato e l’edificazione/trasformazione a lui servente sono i due pilastri che sorreggono – in modo chiaramente pregiudiziale e ideologico – il principio di disciplina. La stessa nascita di quell’ircocervo sostanziale e giuridico che sarà, nel diritto italiano del dopoguerra, il piano regolatore-atto complesso trova le ragioni genetiche all’interno di una sofferta e tesa dialettica fra municipalità e statualità del sistema: un confronto di potere, non di campi, scenari, obiettivi e dunque scale di regolazione. Non torno troppo su vicende note e ben ricostruite dalla letteratura giuridica. Mi limito a ricordare che l’aferesi del sistema generale – il fatale colpo di mano che in sede di approvazione portò all’elisione della obbligatorietà del piano territoriale di coordinamento nel testo definitivo della legge del ’42 – fu, fra le varie cause, sicuramente dovuta al nucleo concettuale ravvisato, lungo i decenni prebellici, nella nozione stessa di urbanistica: malamente intesa in senso restrittivo, e dunque come mera disciplina dell’edificazione all’interno dell’abitato o comunque del solo territorio comunale. Una percezione diffusa della materia, insomma, come di interesse esclusivamente locale: dalla quale rimanevano pertanto esclusi gli interessi sovracomunali, che erano invece destinati a essere soddisfatti mediante interventi soprattutto puntuali dei poteri centrali, non coordinati con le scelte pianificate dalla “base”. Nel dopoguerra il vuoto determinato dall’assenza dei piani sovracomunali genererà a sua volta la torsione del doppio procedimento in funzione di controllo meritale e non di mera conformità/compatibilità con l’assetto del piano territoriale. La doppia battuta, scandita attraverso la cadenza adozione-approvazione, diviene cioè funzionale a un duplice obiettivo. Anzitutto, l’inserimento – più virtuale che effettivo – degli interessi non comunali nell’orditura delle scelte di piano; ma anche il controllo occhiuto del potere centrale sulle tramature di primo livello: cui sono sottratte «quote» consistenti di autonomia allo scopo di scongiurare, o almeno arginare, i danni che erano e sarebbero ancora derivati dalle prove non commendevoli che i Comuni avevano complessivamente fornito… (segue)



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