Com’era largamente prevedibile, di fronte alla semplice ipotesi di realizzare un’importante riforma – di forte impatto politico e di sicuro rilievo costituzionale qual è il c.d. regionalismo differenziato o asimmetrico – ben prima che si disponesse di testi normativi in versione finale e non controversa, la dottrina si è lanciata nell’esame delle bozze di intesa disponibili, letteralmente sbizzarrendosi nei più svariati commenti, con una quantità sorprendente di articoli, saggi e persino raccolte monografiche, che hanno cercato di approfondire quasi tutti gli aspetti (costituzionali, legislativi, amministrativi, fiscali, persino quelli legati alla libertà religiosa…), fino ad arrivare all’inevitabile appello di alcuni costituzionalisti. In genere sono restio a commentare riforme di rilievo costituzionale ancora in itinere, per varie ragioni, non ultima quella per cui – in un Paese come l’Italia, dove le riforme continuamente si invocano e si promettono, ma raramente si fanno (o, se si fanno, spesso poi vengono bocciate dagli elettori in sede referendaria) – il rischio reale è quello di affannarsi a vuoto. Inoltre non è raro che – se e quando, poi, effettivamente una riforma prende vita – ci si debba confrontare con un testo ben diverso che per altro, quasi sempre, si rivela essere una… “riforma riformanda”. In questo caso, penso invece che – nonostante il mutamento della maggioranza di governo, piaccia o no e prima o poi – la riforma del c.d. regionalismo differenziato si farà, vuoi perché non esige il ricorso alla complessa procedura della legge costituzionale (apparentemente il dettato costituzionale, novellato nel 2001, non viene modificato), vuoi perché è l’unica alternativa materialmente praticabile per le Regioni più avanzate del Nord Italia, sempre più distanti oggi dalle altre (soprattutto meridionali), per far fronte alla (non esplicita, ma strisciante e ricorrente) tentazione separatista/secessionista. I rischi connessi a questa tentazione non vanno esasperati istericamente, ma nemmeno sottovalutati superficialmente, andando essi ben oltre il nostro Paese: penso al problema irrisolto della Catalogna o agli effetti, davvero imprevedibili, che soprattutto una hard Brexit può produrre sull’unità del Regno…unito. Benché si tratti di fenomeni certo diversi, è in questo particolare contesto storico – un Vecchio Continente in cui si agitano i demoni della divisione identitaria o del semplice egoismo economico – che si colloca la discussione italiana sul c.d. “regionalismo differenziato”, una buona idea che potrebbe facilmente trasformarsi in un disastro. Quindi occuparsene, anche se il processo riformatore è incerto ed ancora in itinere, forse non è del tutto vano. In questa sede cercherò soltanto di fare un veloce excursus sul tema, riproponendone in modo molto essenziale i tratti salienti, senza quindi pretesa di delineare esaustivamente lo stato dell’arte in merito e senza indicare, di volta in volta e punto per punto, la copiosa dottrina esistente (comunque riportata, almeno in parte, nella bibliografia finale), nella speranza che anche la voluta semplificazione derivante da questo estremo sforzo di “sintesi” possa aiutare… (segue)
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