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NUMERO 20 - 30/10/2019

 Cittadinanza europea, perdita della cittadinanza nazionale

Al tempo della Brexit, l’istituto della cittadinanza europea ed il suo essere inscindibilmente connesso alla cittadinanza degli Stati membri rappresenta uno dei temi di maggiore dibattito dottrinario, che ha condotto ad una rivitalizzazione delle riflessioni sulla definizione di una “cittadinanza autonoma” dell’Unione europea. Pur non potendo essa profilarsi, a “trattati vigenti” le Istituzioni dell’Unione europea hanno, in linea generale, progressivamente mostrato di accentuare il grado di “pervasività” del diritto dell’Unione europea nella domestic jurisdiction degli Stati, per quanto concerne sia l’acquisto che la perdita della cittadinanza. Sotto il primo profilo, è ben nota la questione riguardante i cd. “programmi di cittadinanza per investitori” (cd. “passaporti d’oro”) che, in particolare, ha condotto la Commissione europea a richiedere agli Stati membri interessati ad assicurarsi che la cittadinanza sia concessa in presenza di un “legame effettivo” e ad attivare un meccanismo di monitoraggio sulla conformità delle legislazioni nazionali con il diritto dell’Unione europea. Il criterio del cd. “genuine link”, sotto il diverso profilo della perdita della cittadinanza, è anche al centro della recente sentenza della Corte di giustizia relativa al caso Tjebbes che, sulla scia della precedente sentenza Rottman, invoca il “due regard” per il diritto dell’Unione europea, ossia il rispetto del diritto dell’UE nelle determinazioni nazionali inerenti alla perdita della cittadinanza di uno Stato membro che si riverbera sulla cittadinanza europea e sul godimento dei diritti ad essa connessi. Su questi ultimi profili intende proprio concentrarsi il presente scritto, analizzando, alla luce della giurisprudenza della Corte di giustizia dell’Unione europea (parr. 2-3), le implicazioni del “rispetto del diritto dell’Unione europea” e il tipo di sindacato su cui la Corte appare orientato, specie a seguito della sentenza Tjebbes (par. 4), e prendendo poi in considerazione la recente novella che ha interessato l’ordinamento italiano con la previsione della “revoca” della cittadinanza nell’ipotesi di condanna definitiva per alcune fattispecie di reati, istituto che trova applicazione solo nei confronti di coloro che abbiano ottenuto la cittadinanza per concessione e non anche per i cittadini iure sanguinis (par. 5). Non si può evidentemente prescindere dal ricordare che, secondo quanto sancito dagli artt. 9, par. 1, del Trattato sull’Unione europea (TUE) e 20 del Trattato sul Funzionamento dell’Unione europea (TFUE), «è cittadino dell’Unione chiunque abbia la cittadinanza di uno Stato membro»: previsione che, pur nella stratificazione dei Trattati modificativi, è rimasta immutata rispetto all’originario art. 8 del Trattato della Comunità europea (TCE). Così formulata, la norma sta a significare che, nell’identificazione dei titolari dei diritti connessi alla cittadinanza europea, l’ordinamento europeo non introduce e prevede l’utilizzo di propri criteri autonomi, limitandosi semplicemente a conferire, in maniera automatica, la qualifica di cittadino europeo a tutti coloro che possiedono la cittadinanza di uno Stato membro. Sono gli Stati membri che, tramite le proprie norme interne sull’attribuzione e revoca della cittadinanza, incidono sull’attribuzione e sulla revoca della cittadinanza europea. Per tale peculiarità, alla cittadinanza europea è connaturato un carattere “derivato”, poiché il legame che unisce l’Unione ai suoi cittadini si stabilisce solo per il tramite dell’attività di “intermediazione” degli Stati membri e si manifesta come attributo della cittadinanza nazionale degli Stati che partecipano al processo di integrazione europea. È evidente che siffatta impostazione trova ancoraggio nel principio di attribuzione delle competenze (art. 5, par. 2, TUE), rappresentando il riflesso della persistente dipendenza dell’ordinamento europeo da quello degli Stati membri e della sua peculiare natura “sovranazionale”. Infatti, il rinvio che la l’art. 20 del TFUE opera in favore delle norme nazionali relative alla cittadinanza, determina la possibilità che gli Stati membri abbiano il potere di influire, attraverso le rispettive nozioni di cittadinanza, sull’ambito di applicazione delle norme dell’ordinamento europeo. Allo stato attuale del processo di integrazione europea, pertanto, non si configura l’“autonoma regolamentazione giuridica” della cittadinanza europea rispetto alla cittadinanza nazionale, non essendo a ciò sufficiente la novella contenuta nell’articolo 20 del TFUE, secondo cui la cittadinanza europea si “aggiunge” alla cittadinanza nazionale. Nemmeno la rilevante azione pretoria della Corte di giustizia, che riconnette particolare importanza alla cittadinanza europea, può evidentemente evolversi oltre il limite delle competenze attribuite e di quel principio di diritto consuetudinario internazionale che vuole che, in linea di principio, le questioni relative al riconoscimento della cittadinanza appartengano alla domestic jurisdiction degli Stati. Pertanto, va riconosciuto che «non esiste, né potrebbe allo stato ipotizzarsi, una nozione comunitaria di cittadinanza, sì che le norme che ne prescrivono il possesso come presupposto soggettivo per la loro applicazione in realtà rinviano alla legge nazionale dello Stato la cui cittadinanza viene posta a fondamento del diritto invocato»… (segue)



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