
In linea di principio, anche i magistrati hanno gli stessi diritti garantiti dalla Costituzione a ogni altro cittadino con riguardo alla libera manifestazione del pensiero (art. 21 Cost.) e alla possibilità di accedere agli uffici pubblici e alle cariche elettive (art. 51 Cost.). La Corte costituzionale, tuttavia, ha affermato che l’esercizio dei diritti spettanti ai magistrati incontra alcuni limiti “giustificati sia dalla particolare qualità e delicatezza delle funzioni giudiziarie, sia dai principi costituzionali di indipendenza e di imparzialità (…) che le caratterizzano”. In particolare, il diritto del magistrato di partecipare alla vita politica “non può non essere limitato dalla sussistenza di altri beni giuridici costituzionalmente protetti, quali il buon andamento della giustizia e il prestigio dell’ordine giudiziario”. In effetti, la partecipazione del magistrato alla vita politica è di per sé suscettibile di intaccare l’apparenza di imparzialità e indipendenza, che invece sono “requisiti essenziali che caratterizzano la figura del magistrato in ogni aspetto della sua vita pubblica”. Come ribadito anche di recente dalla Corte costituzionale, infatti, i magistrati, per la funzione ad essi affidata, sono tenuti “non solo a conformare oggettivamente la propria condotta ai più rigorosi standard di imparzialità, correttezza, diligenza, laboriosità, riserbo ed equilibrio nell’esercizio delle funzioni, secondo quanto prescritto dall’art. 1 del d.lgs. n. 109 del 2006, ma anche ad apparire indipendenti e imparziali agli occhi della collettività, evitando di esporsi a qualsiasi sospetto di perseguire interessi di parte nell’adempimento delle proprie funzioni. E ciò per evitare di minare, con la propria condotta, la fiducia dei consociati nel sistema giudiziario, che è valore essenziale per il funzionamento dello Stato di diritto”. In questa prospettiva la Corte costituzionale ha respinto la questione di costituzionalità della norma che vieta al magistrato, anche quando assume cariche elettive di natura politica, la partecipazione organica alla vita dei partiti. Una disciplina che da una parte permette al magistrato di collocarsi fuori ruolo per candidarsi alle elezioni ed esercitare un mandato politico e, dall’altra parte, gli vieta di partecipare attivamente alla vita di un partito politico, rappresenta peraltro una evidente anomalia. Più in generale, la disciplina che oggi regola la partecipazione del magistrato alla vita politica appare sotto vari profili non idonea a bilanciare in maniera corretta il diritto dei magistrati di partecipare alla vita politica e l’esigenza di preservare la loro indipendenza. Per tale motivo il Consiglio Superiore della Magistratura (CSM), con delibera del 21 ottobre 2015, ha formulato una motivata proposta di riforma al Ministro della giustizia, proposta che però non ha avuto seguito. Nella prospettiva di una riforma della disciplina di settore, occorre chiarire fino a che punto ed entro quali limiti la partecipazione di un magistrato alla vita politica sia compatibile con la necessità di garantire la fiducia dei consociati nell’indipendenza e nell’imparzialità dell’ordine giudiziario. Svolgerò qui di seguito alcune considerazioni per cercare di rispondere a tale interrogativo. A tal fine, procederò a un esame della disciplina sulla partecipazione del magistrato alla vita politica sotto tre diversi aspetti: la limitazione della possibilità per i magistrati di iscriversi o di partecipare attivamente alla vita dei partiti politici, le condizioni che il magistrato deve rispettare per candidarsi o essere eletto a cariche politiche e la ricollocazione in ruolo del magistrato al rientro dall’attività politica… (segue)
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