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Il rapporto tra razionale e irrazionale nelle amministrazioni pubbliche sembra segnato dalla condanna a un’eterna rincorsa. Quanto più si cercano ed elaborano modalità per configurare assetti razionali, tanto più insorgono nuovi elementi di irrazionalità. Non so se questo sia dovuto a quella che, descrittivamente, viene sintetizzata nella fatale complessità giuridica delle società contemporanee, che si dice giunta a un livello che sembra non prestarsi più a soluzioni autenticamente semplificanti; oppure alla tendenza sociale e politica - di cui l’ordinamento giuridico è solo specchio – all’orizzontalizzazione dei rapporti a partire da quelli dell’autorità e del potere; alla perdita di un centro dominante e delle linearità che vi fanno capo; e, per quanto ci riguarda più direttamente, allo smarrimento dell’univocità, quando non della stessa identificabilità, dell’interesse pubblico: cioè della pietra angolare di qualsivoglia razionalità amministrativa. Da giuristi dobbiamo confrontarci con il dato instabile che ne viene, che in misura crescente è quello – poco razionale, almeno in termini di coerenza - della tendenziale polverizzazione del diritto oggettivo in diritti soggettivi autonomi e non relazionali; dell’enfatizzazione degli interessi particolari rispetto alle funzioni pubbliche; della propensione alla contrattualizzazione di tutti i rapporti inclusi i rapporti pubblici, dove l’invasione del particolare arriva a prevalere al prezzo della precarizzazione degli interessi coinvolti, omologati per tutela e instabilità. È il difficile scenario - cui assistiamo da giudici, non sempre passivamente - della scomposizione del diritto amministrativo e della sua progressiva frammentazione per settori, ognuno con proprie espressioni di potere. Il tema della “razionalità amministrativa” si deve confrontare con questo quadro in trasformazione: in una parola, insicuro perché malcerto, instabile, mutante. Dal che la questione del rapporto con la generale sicurezza giuridica, che domanda la prevedibilità delle qualificazioni e resta caposaldo irrinunciabile dello Stato di diritto. Non risolve la questione di sistema della “razionalità amministrativa” il ridurre il tema alla prospettiva soggettiva elevata a misura di tutte le cose: e parlare – con l’art. 41 della Carta di Nizza dei diritti fondamentali dell’Unione europea - di diritto fondamentale dell’individuo «a una buona amministrazione». A parte che non esiste un rimedio giudiziale ai difetti generali, in tale prospettiva si degrada la questione a vicenda di preminente e variabile misura individuale. Cioè la si relativizza all’infinito, aggravandola fino a dissolvere ogni razionalità di sistema, spostandola dalla sua sede naturale all’intervento eventuale ed episodico di un giudice che per suo ufficio è legato alle specificità del caso concreto: e che non è né legittimato né attrezzato a porsi come risolutore demiurgico delle irrazionalità del tutto. Un rovesciamento paradossale. In questo scenario di paradossi, per parlare di “razionalità amministrativa” la riflessione non può che tentare di storicizzare il tema e riferirsi a quella che è stata la grande trasformazione delle società occidentali e dei loro ordinamenti negli ultimi trent’anni, dalla fine della guerra fredda… (segue)
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