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NUMERO 23 - 18/12/2019

 In controtendenza. Note sull'ammissibilità del referendum elettorale per i collegi uninominali

Il quesito referendario depositato il 30 settembre 2019 da otto regioni (Veneto, Piemonte, Lombardia, Friuli-Venezia Giulia, Sardegna, Abruzzo, Basilicata e Liguria), dopo essere stato dichiarato conforme alla legge n. 352 del 1970 dall’Ufficio centrale (ord. 20 novembre 2019), è in attesa di essere valutato dalla Corte costituzionale. Tra tutti i limiti di ammissibilità, esso deve misurarsi soprattutto con uno dei più insidiosi criteri che la giurisprudenza ha elaborato: l’auto-applicatività. Non ci sono dubbi, detto altrimenti, sul fatto che sotto ogni altro profilo il referendum elettorale possa passare indenne l’ammissibilità: la domanda, nell’oggetto e nel fine, è diretta a rendere generale la regola del collegio uninominale per l’assegnazione dei seggi di Camera e Senato. Il quesito è chiaro, omogeneo, possiede una “matrice razionalmente unitaria”, e le conseguenze sono il lineare svolgimento dell’ablazione frutto del ritaglio proposto (che abolisce il metodo proporzionale per l’attribuzione dei seggi nei collegi plurinominali). Il tutto, in perfetta coerenza con la giurisprudenza costituzionale esistente in materia di referendum elettorali (sentt. 29/1987, 47/1991, 32/1993, 5/1995, 27/1997, 13/1999, 15 e 16/2008). Il problema oggi è, proprio, l’auto-applicatività: l’eliminazione del criterio di assegnazione proporzionale dei seggi residui a quelli attribuiti nei collegi uninominali, con conseguente generalizzazione di questi ultimi, consente il rinnovo delle due camere? Il limite pare essere quello che già in passato è stato riscontrato, allorché nel 1995 e nel 1997, il quesito allora proposto, nell’abolire l’assegnazione proporzionale del 25% dei seggi di Camera e Senato, era riconosciuto privo del requisito dell’auto-applicatività, perché la Corte riteneva necessario a tal fine ridisegnare i collegi esistenti, per adeguarli al numero di quelli da assegnare sulla base della normativa di risulta. Nella sent. n. 5/1995, in particolare, si dice: la “esigenza fondamentale di funzionamento dell’ordinamento democratico rappresentativo non tollera soluzioni di continuità nell’operatività del sistema elettorale del Parlamento: una richiesta di referendum che esponga l’ordinamento a tale rischio non potrebbe, pertanto, che essere dichiara inammissibile”. In concreto, per i giudici costituzionali era necessaria una “integrale rideterminazione dei collegi”, per mezzo di un “provvedimento legislativo”, non ritenendosi sufficiente al riguardo il potere di riordino dei collegi attribuito alla Commissione tecnica prevista per legge (il medesimo assunto si ritrova nella sentenza sul referendum gemello di qualche anno dopo, cfr. sent. n. 26/1997). Rileggendo un passo chiave: “(…) tale opera è destinata a concludersi, dopo un complesso procedimento, con l’approvazione di una legge ovvero di un decreto legislativo emanato dal governo sulla base di una nuova legge”. La Corte costituzionale, in specie, richiedeva “una nuova delega”, “un nuovo intervento del legislatore”, sulla base del presupposto che nell’ordinamento vigente non sussistesse un’analoga previsione normativa, e che proprio da tale assenza derivasse la non auto-applicatività dei relativi quesiti referendari. Quest’ultimo punto è molto importante: quei precedenti, presi alla lettera, non coprono tutte le ipotesi, ma hanno lasciato impregiudicato almeno il caso in cui una simile previsione, una simile delega legislativa sia presente e vigente nell’ordinamento, nel momento in cui si tratta di decidere dell’ammissibilità di un quesito che ha implicazioni sulla distribuzione complessiva dei seggi. Proprio con riferimento a questo aspetto va apprezzata la peculiarità del referendum elettorale oggi in discussione davanti alla Consulta… (segue)



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