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NUMERO 25 - 09/09/2020

 L'antipolitica è arrivata alla Costituzione. Fare argine può costituire un punto di svolta.

Il referendum che si svolgerà sul testo di legge costituzionale recante «Modifiche agli articoli 56, 57 e 59 della Costituzione in materia di riduzione del numero dei parlamentari» (pubblicato in G.U. Serie Generale n.240 del 12-10-2019) appare uno snodo significativo della nostra storia repubblicana, a dispetto della sua portata relativamente limitata ancorchè non marginale. Mi è capitato di definire l'approvazione parlamentare del suo oggetto come il punto più basso della “Seconda Repubblica” (HuffingtonPost, 10 ottobre 2019). Uso l'espressione non a caso. Questa locuzione giornalistica è ormai caduta un po' in disgrazia perchè la sua pretesa unitarietà si è smarrita nelle convulsioni degli ultimi dieci anni. Tuttavia non dobbiamo dimenticare l'indubbia sostanza dell'espressione su un piano non strettamente giuridico-formale. La Repubblica è una ma dal 1993 nel discorso pubblico, con la caduta del sistema repubblicano dei partiti storici, è diventata predominante una retorica abituata a contrapporre rappresentanza e sovranità popolare. E' avanzata una cultura che non ha mancato di lambire anche la comunità scientifica (da cui del resto traeva spunti importanti) che ha forzato la lettura della Costituzione, ad esempio rimuovendo i limiti di cui all'art. 1 Cost. con pressioni su istituti costituzionali che venivano riletti alla luce di una visione improntata alla “democrazia populistica” anziché “madisoniana” per usare le espressioni di Robert Dahl: la formazione del Governo e lo scioglimento delle camere, in particolare, tra i poteri del Capo dello Stato, e il libero mandato parlamentare, a tacer d'altro. Sul piano strettamente giuridico e scientifico in passato ho provato ad argomentare che si è trattato di un cedimento alle varie versioni della “costituzione in senso materiale”, che costituisce una vena non insignificante tra le pieghe del formale ed inevitabile gius-positivismo di parte della nostra comunità scientifica. Sul piano del discorso pubblico questo slittamento è stato volgarizzato in atteggiamenti anti-politici e antiparlamentaristici, con un rifiuto in blocco del ruolo della classe politica ben oltre le contestazioni relative al rendimento e una diffusa incomprensione della natura indefettibilmente rappresentativa della nostra (e non solo nostra) democrazia. Schiacciata su una visione comunitaria pan-partecipazionista e, sul piano dello Stato-apparato, elettoralistica (“il mandato popolare”; “il governo la sera delle elezioni”, il divieto di “ribaltone”), la nostra democrazia rappresentativa ha subito l'antitesi tra partecipazione e rappresentanza e spesso si sono visti gli istituti di democrazia diretta (la cd. la democrazia diretta), anche nell'ultima variante: gli strumenti elettronici, e la democrazia rappresentativa come modello alternativi. Certamente la rappresentanza politica è un concetto rarefatto, difficilmente presente e sentito da chi non vi sia psicologicamente e cognitivamente predisposto. Un'espressione della divisione del lavoro, fondamento della modernità, che a sua volta appare astrusa al tempo del “Daily me” post-moderno (Negroponte), la realtà come specchio del proprio Io. La cultura della liberal-democrazia, ed intendo non solo la cultura politica specifica ma la comune cultura costituzionale che alimenta la nostra democrazia e espressa in modo limpido nella nostra Costituzione, va tramandata quale parte di una tradizione costituzionale, sottesa alle norme e ai principi e può mantenersi viva solo in forza di un diffuso consenso trasmesso tra le generazioni. Ma le credenze diffuse negli anni scorsi si sono formate nell'operare diffuso di disinformationmisinformation fake news. L'erompere dei social network e, prima, di Internet ha colpito duramente corpi intermedi e media tradizionali già in profonda crisi e si è prodotta una miscela tossica di propaganda ricorrendo ad argomentazioni fallaci, complottismo frutto di frustrazioni e inedita facilità di agglutinamento di marginalismi ed eccentricità (di per sé, sia chiaro, non negative) ed uno storytelling del discorso politico dove la finzione e il racconto hanno preso il sopravvento sulla realtà - intesa la verità “così come stanno le cose” - fino ad avvelenare il dibattito pubblico. Ciò è avvenuto anche grazie ai progressi straordinari delle neuroscienze che hanno consentito di far leva in modo mirato su pregiudizi ed errori (bias) cognitivi rafforzati da un'imperante cultura del narcisismo, e aggravati dal risentimento derivante da quote crescenti di popolazione esclusa dai processi di integrazione e dallo scivolamento dei ceti medi verso la marginalità e il declino. Sono stati così accreditati “fattoidi”, “verità alternative” e “post-verità” di ogni genere. Una vera e propria fuga dalla realtà che alcune democrazie hanno pagato o stanno pagando a caro prezzo. Anche la nostra, sulla scorta dei risultati fallimentari della classe politica e dei “competenti” con la crisi del 2008 e 2011, intervenuta su un paese già fragile e pesantemente indebitato è stata infiltrata dalla politica dell'antipolitica, e una cultura marginale, poi diffusa, è divenuta infine dominante e governante. Ben prima dell'arrivo in parlamento dei Cinque Stelle la riduzione del numero dei consiglieri regionali era stata introdotta con un decreto legge n. 138 del 2011 (governo Berlusconi) a titolo di "riduzione dei costi degli apparati istituzionali". In parallelo emergeva la polemica di lungo corso contro lo status dei parlamentari, che portava tra l'altro ad un ricalcolo retroattivo dei vitalizi e giungeva a maturazione - dopo le insopportabili distorsioni nell'uso della legge degli anni precedenti, in parte già contrastate - l'abolizione tout court del finanziamento pubblico diretto ai partiti con il decreto legge 28 dicembre 2013, n. 149, convertito in legge 21 febbraio 2014, n. 13 (governo Letta)... (segue)



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